Ebrei e Israele

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    Home » La sacralità della terra d’Israele


    Ester Pavoncello | 25-04-2024


    Israele dispone di tecnologie avanzate. Abbiamo assistito ad un miracolo nel momento in cui centinaia di missili e droni erano stati indirizzati per seminare morte e distruzione sulla nostra terra. Ma il Santo Benedetto Egli Sia, con la Sua Mano Forte, ha cambiato le sorti di ciò che poteva accadere. Non dorme e non sonnecchia il custode d’Israel, poiché ha un rapporto speciale con la sua terra.

    La terra d’Israele ha un legame particolare con il popolo ebraico. È una terra caratterizzata da santità. Gli ebrei parlano di kedushat aharez, santità della terra, di erez hakodesh, terra di Colui che è Sacro. Da millenni, argomenti di discussione, le cui conclusioni hanno implicazioni halachiche e politiche.

    La prima distinzione da fare riguarda la santità della terra di per sé, legata ad una scelta divina. E la santità legata alla presenza ebraica.

    Erez Israel, anticamente la terra di Canaan. Terra a statuto speciale per quanto riguarda il rapporto che il Signore ha con questo luogo. È una terra della quale l’Eterno si prende cura. Gli occhi dell’Eterno sono costantemente su di essa, dall’inizio dell’anno fino al termine dell’anno (Devarim 12, 12).

    È chiamata nachalat aHashem, il territorio di Dio (Shemuel 26, 19) ha uno stato privilegiato che esiste dall’inizio della creazione. È un rapporto che rimarrà perenne. Una persona deve sempre preferire di vivere in Israele, anche in una città a maggioranza ebraica fuori. Chiunque abiti fuori Erez Israel è come se non avesse Dio. Chi è sepolto in terra d’Israele, è come se fosse sepolto sotto l’Altare. Questo rapporto di sacralità è eterno. Esiste un’area privilegiata, dove sorgeva il Santuario.

    Il Signore disse a Salomone: Io ho consacrato questa casa che tu hai costruito per il Mio Nome in Eterno (I Re 9, 3). Il Signore ha scelto Sion come residenza, l’ha desiderata come Sua dimora. Questo sarà il luogo del Mio riposo per sempre; qui abiterò, perché l’ho desiderato (Salmi 132 ) Nelle Cronache è detto, ecco io costruisco una casa a nome del Signore, per consacrarlo per l’eternità.

    Nel Trattato dei Kelim impariamo che esistono dieci livelli di santità. Iniziando da Erez Israel che è mekudeshet, consacrata: in questa terra si possono portare l’omer, le primizie, i pani per la festa di Shavuot. Le città che sono circondate da mura, hanno un livello superiore, ospitano solo persone ritualmente pure. All’interno delle mura di Gerusalemme, si consumavano il sacrificio pasquale e la seconda decima.

    L’Ar Abait, luogo dove sorgeva il Bet Hamikdash. Diverse possibilità di accesso in quell’area, rispetto allo stato di impurità. La più forte, chi ha avuto contatto con un morto. Dalla quale ci si libera, dopo essere stati spruzzati con un liquido puro, in cui è sciolta la cenere della vacca rossa.

    Un primo ingresso in Erez Israel, il popolo uscito dall’Egitto, che dopo quarant’anni l’ha conquistata. La prima consacrazione di un vasto territorio. Dopo l’esilio babilonese, il popolo ebraico torna in Israele, qualche decennio dopo in modo pacifico. Esrà ricostituisce i confini. Il Talmud si chiede che valore poteva avere questa consacrazione in mancanza di alcuni presupposti, i re, gli urim e tumim. La risposta: non c’era bisogno della consacrazione perché la consacrazione rimaneva. Altro problema che si pone l’halachà se la prima kedusha sia rimasta tale, ovvero una seconda si è sostituita alla prima. E questa seconda, con la distruzione del Tempio di Gerusalemme rimane?

    È verso Gerusalemme che ci rivolgiamo quando preghiamo ogni giorno, per noi simbolo di santità e connessione spirituale. Punto di riferimento di ogni ebreo della diaspora. Se ci potessero parlare quei bigliettini accartocciati inseriti nei resti di pietre antiche intrise di storia del Muro del Pianto, così chiamato perché ancora piangiamo la distruzione del Tempio: ringraziamenti, preghiere, richieste. Voci di suppliche, di disperazione, di speranza, di fede. A concludere l’insegnamento di rabbì Chaninà, valido per i suoi tempi e per i nostri, sottolinea l’importanza dei miracoli che interessano la vita quotidiana, i piccoli gesti, gli incontri fortuiti. Basta una parola per rallegrare una giornata, ogni uomo può affrettare la Redenzione. Come lui, sogniamo di andare a Gerusalemme, sogniamo di deporvi un’offerta…Pesach è alle porte. Quando diremo Leshanà haba’ha BYrushalaim, l’anno prossimo a Gerusalemme! In un momento così delicato, le corde della nostra anima vibreranno come non mai.

    Da shalom.it
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    Bloggando il Corano: Sura 28, “Il Racconto”

    Da ISLAMICAMENTANDO.org · 23 APRILE 2024

    Commento al Corano: Sura 28, Il Racconto

    di ROBERT SPENCER 25, (Giugno, 2008)



    E’ stato spesso rilevato che, mentre la Bibbia è (oltre a molte altre cose) una serie di narrazioni storiche, il Corano è una serie di omelie. Questo non può essere più chiaro che nelle frequentemente ripetute storie di Mosè. Mentre i primi cinque libri della Bibbia narrano la storia di Mosè in quello che è un racconto continuo, il Corano racconta parti di questa storia nelle Sure 2, 7, 10, 17, 20, 26, 27 e in questa (e anche altrove).

    C’è una grande quantità di ripetizioni e sovrapposizioni, ma ci sono anche caratteristiche uniche nella maggior parte delle ripetizioni. Ognuna ha il suo punto omiletico: i dettagli della vita di Mosè sono utilizzati per ammonire i miscredenti o esortare i credenti a una maggiore devozione. Come abbiamo visto la scorsa settimana, Ibn Abbas e Jabir bin Zaid dicono che le Sure 26, 27 e 28 furono rivelate in quest’ordine. Maududi dice che “le varie parti della storia del Profeta Mosè, come riportate in queste Sure, tutte insieme costituiscono un racconto completo”. Comunque, se uno volesse ricostruire la cronologia della vita di Mosè per mezzo del solo Corano, sarebbe molto difficile.


    Intanto, questa ricorrente fissazione su Mosè, rinforza il suo stato di profeta dell’Islam, così come la perversità degli Ebrei nel non riconoscere la conformità del messaggio di Maometto con quello di Mosè, e quindi diventare Musulmani. Maududi enfatizza che, qui, ancora, il punto di queste ripetizioni della storia di Mosè non è di sottolineare l’importanza di Mosè, ma quella di Maometto: “Il tema principale” di questa Sura, dice, “era di rimuovere i dubbi e le obiezioni che erano state sollevate contro le facoltà profetiche del Santo Profeta Maometto (sul quale si riversi la pace e la benedizione di Allah) e per controbattere le scuse addotte per non credere in lui. Per questo fine, per prima cosa, la storia di Mosè è stata correlata … per analogia, con il periodo della rivelazione”.

    I Versetti 2-43 riferiscono la storia di Mosè, ricordando molti elementi del racconto Biblico, benché Haman sia importato da un altro tempo e da un altro luogo (la sua storia è contenuta nel Libro di Ester) per essere l’assistente di Faraone (v. 8). Allah dice alla madre di Mosè di gettarlo nel fiume “quando avrai paura per lui” (v. 7). Lei esegue e “la gente di Faraone” lo salva (v. 8), e sua madre, non essendo nota la sua identità agli Egiziani, diventa la sua nutrice (v. 13). Mosè dichiara che non assisterà mai chi commette peccati (v. 17) – una dichiarazione che i moderni Salafiti (Musulmani “duri e puri”) collegano al detto di Maometto riportato nel Mishkat al-Masabih, che qualcuno che, scientemente, aiuta un tiranno non è più un Musulmano. Questa è la loro giustificazione per opporsi ai governanti autoritari nei paesi Musulmani che non mettono pienamente in pratica la Sharia (come Mubarak e Musharraf).


    Mosè uccide un Egiziano e Allah lo perdona (vv. 15-16), ma si viene a sapere quello che ha combinato (v. 19) e Mosé fugge a Midian (v. 22). Qui si accorda per lavorare per un innominato Jethro in cambio della mano di sua figlia (v. 27). Vede il roveto ardente (v. 29), incontra Allah (v. 30), e gli vengono dati i miracoli della verga (v. 31) e della mano bianca (v. 32) da mostrare a Faraone. Faraone respinge i suoi argomenti come “stregoneria” (v. 36), proprio come i miscredenti diranno di Maometto (11:7, 15:15). E dopo che Allah getta Faraone e i suoi eserciti nel mare (v. 40), arriviamo al punto focale della storia.

    Il nocciolo del racconto è nei Versetti 44-55: il fatto che Maometto conosca questi dettagli della vita di Mosè, quando non era presente per esserne testimone oculare, è la prova che Maometto è un Profeta. Ibn Kathir spiega: “Allah ci presenta la prova delle facoltà profetiche di Maometto, attraverso cui egli riferì agli altri argomenti del passato e parlò di questi come se li avesse ascoltati e visti personalmente. Ma lui era una persona analfabeta che non poteva leggere libri, ed era cresciuto tra gente che non conosceva nulla di queste cose”. Così vediamo Allah che ricorda a Maometto che lui non era presente alle varie vicende della vita di Mosè (vv. 44-46). Eppure gli Arabi pagani chiedono a Maometto di fare miracoli come fece Mosè, anche se loro non credono neppure a Mosè (v. 48); “loro seguono solo le loro brame” (v. 50). Il Popolo del Libro sa che il Corano è vero – “questo fu rivelato” dice il Tafsir al-Jalalayn, “a proposito di certi Ebrei che diventarono Musulmani, come ‘Abd Allāh b. Salām e altri e [certi] Cristiani che erano venuti dall’Abissinia e dalla Siria [e che, pure, divennero Musulmani]”.


    I Versetti 56-75 stigmatizzano la perversità dei miscredenti, che ignorano e negano i chiari segni di Allah. Allah guida chi vuole; Maometto non riuscirà a portare la verità a tutti quelli che ama (v. 56) – giusto un altro Versetto che indica che la fede e la sua mancanza è unicamente nelle mani di Allah. “Questi Versetti furono rivelati”, spiega Ibn Kathir, “a proposito di Abu Talib, lo zio paterno del Messaggero di Allah” – e padre di Ali, l’eroe degli Sciti. Abu Talib “era sempre pronto a proteggere il Profeta, a sostenerlo e a schierarsi dalla sua parte. Amava profondamente il Profeta, ma questo era un amore naturale, cioè, derivante dalla parentela, non un amore dovuto al fatto che lui era il Messaggero di Allah. Quando fu sul suo letto di morte, il Messaggero di Allah lo chiamò alla fede e ad accettare l’Islam, ma il decreto lo raggiunse e rimase un miscredente, e la saggezza assoluta appartiene ad Allah”.

    Allah rimprovererà i miscredenti nel Giorno del Giudizio, chiedendo loro dove sono i suoi “compagni” (vv. 62, 74-75). Seguono i Versetti 76-88 con la storia di Qarun (il Core di Numeri 16:1-40), che si ribellò contro Mosè. Qarun crede nella sua grande ricchezza invece che venerare Allah (v. 78). Secondo un Hadith, Abu Hurayra, uno dei compagni di Maometto, ha ricordato che Maometto disse che solo tre cose alla fine appartengono all’uomo che si gloria delle sue ricchezze: il cibo che mangia, gli abiti che indossa e le somme che spende per la causa di Allah. “Tutto il resto” disse Maometto, “lo lascerà ai suoi eredi”. Nessun dubbio su questo.


    Coloro “il cui scopo è la vita di questo mondo” (v. 79) lo invidiarono, ma i giusti ne sanno di più (v. 80), e, sicuramente, al momento giusto Allah “fece in modo che la terra si aprisse per inghiottire lui e la sua casa” (v. 81). Maometto non dovrà “mai aiutare i miscredenti” (v. 86) – “piuttosto”, dice Ibn Kathir, “sepàrati da loro, esprimi la tua ostilità contro di loro e opponiti a loro”. Perché, alla fine, tutto morirà, eccetto il Suo Viso” (v. 88) – cioè, tutto, tranne Allah. Questo sembrerebbe contraddire l’eternità di Paradiso e inferno, ma il Tanwîr al-Miqbâs min Tafsîr Ibn ‘Abbâs lo parafrasa in questo modo: “Tutte le cose che non sono fatte in funzione della sua Immagine… non saranno accettate … tranne quelle intese per l’interesse della Sua Immagine”.
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    Universi paralleli o mondi superiori? La metafisica e gli stati molteplici dell’essere

    RAV ARIEL DI PORTO 15/02/2022
    Torino, 15.2.2022


    Il problema della possibilità di esperire, pensare o dire il divino attraversa tutta la storia del giudaismo, e diviene cruciale nella mistica. L’orizzonte intellettuale nel quale si sviluppa la riflessione in merito è anzitutto quello biblico. Nel testo biblico sono individuabili varie prospettive sul tema (vedi Mottolese 2006, 25-26). L’esito è stato lo sviluppo nella storia del pensiero ebraico in quella che Gershom Scholem vedeva come una tensione fra il “bisogno religioso” di pensare una relazione concreta e vitale con la divinità e l’”urgenza teologica” di mantenerne l’assoluta trascendenza. In molti discorsi della tradizione ebraica non si avverte il timore di affidarsi all’analogia fra le forme dell’umano e le forme del divino, mettendo in relazione gli eventi del mondo terreno e del mondo celeste (Mottolese 2006. 39).

    Nella tradizione ebraica fisica e metafisica vengono chiamate ma’aseh Bereshit e ma’aseh merkavah. Ma’aseh Bereshit si riferisce alla prima parola del libro della Genesi (in principio), nel quale viene descritta la creazione del mondo, mentre l’espressione ma’aseh merkavah si rifà al primo capitolo del libro di Ezechiele, brano nel quale secondo la tradizione rabbinica espressa nel secondo capitolo del trattato talmudico Chaghigah (En Doreshin) sono espressi grandi segreti. Cosmogonia e teologia, i più grandi e profondi misteri dell’esistenza sarebbero celati sotto una letteralità ora semplicistica e immaginifica, ora antropomorfica e inquietante (Laras, in Gatti 2003, 10). La mishnà insegna: “Non si devono interpretare (i capitoli) riguardanti i rapporti sessuali proibiti davanti a tre persone (o più), né il racconto della Creazione davanti a due persone (o più), né il racconto (che si riferisce) al carro celeste davanti a una sola persona, a meno che non si tratti di un saggio capace di comprendere da solo. Colui che cerca di penetrare i seguenti quattro (misteri: ciò che è al di sopra, ciò che al di sotto, ciò che è prima, ciò che è dopo), sarebbe meglio per lui se non fosse stato creato”. Nel commentare questo brano, troviamo delle differenze significative nei due Talmudim, sia dal punto di vista dell’organizzazione del materiale, sia dal punto di vista della considerazione del tema della creazione, che nel Talmud Yerushalmi non viene considerato una questione cosmologica, bensì teologica (Leicht 2013, 252). Spesso quando ci si rapporta a questioni relative alla fisica, si è portati a considerarle questioni profane: uno dei più grandi studiosi del pensiero maimonideo del XX secolo, Yoseph Kafih (1917-2000), non era dello stesso avviso: sebbene la scienza si interessi sia della fisica che della metafisica, ogni questione che abbia a che fare con la verità non deve essere considerata una questione secolare (Kellner 2020, 3).

    Nell’antichità la cosmologia non è stata una delle principali occupazioni ebraiche, tanto che non ci è pervenuta neppure un’opera del periodo pre-gaonico dedicata esclusivamente alla descrizione del mondo. I riferimenti a questo ambito nel giudaismo antico si riferiscono sostanzialmente a due filoni, oggetto di interesse degli studiosi, quello apocalittico alla fine del periodo del Secondo Tempio, e quello del primo misticismo e della letteratura degli Hekhalot. In entrambi i filoni tuttavia l’interesse cosmologico è scarso (Leicht 2013, 245).

    Nella filosofia ebraica medievale sono stati sviluppati temi metafisici sia in ambito neoplatonico che aristotelico. Nel primo gruppo possiamo ricordare l’opera di Isaac Israeli, Shelomò ibn Gabirol, Moshè ibn Ezrà e Yosef ibn Zaddiq. Nel secondo spicca la principale opera filosofica di Mosè Maimonide, il Moreh Nevukhim, la Guida dei perplessi. Non troviamo tuttavia, tranne rarissime eccezioni, delle trattazioni metafisiche sistematiche in questo periodo (Zonta 2005, 243). Anche nelle enciclopedie filosofiche del XIII-XIV secolo è presente una sezione dedicata alla metafisica, considerata parte integrante del sistema filosofico aristotelico, con l’eccezione dell’opera più “popolare” Sha’ar ha-shamayim, di Ghershom ben Shelomò di Arles (Zonta 2005, 244).

    Pur non potendo entrare nei dettagli, cercherò di riportare alcune coordinate sulla metafisica nella riflessione dei mistici, concentrandomi solo sui primi stadi di questa storia, lunga e affascinante. Nella mistica ebraica vengono ripresi degli aspetti propri della tradizione rabbinica e di quella filosofica, che vengono utilizzati in modo originale per dar luogo a un sistema compiuto. Nella visione mistica l’universo divino è caratterizzato da un dinamismo che viene influenzato dalla sfera umana, molto distante dall’idea aristotelica del motore immobile. In questo senso la vita religiosa assume un significato notevole, date le interazioni fra divino ed umano, sia per via dell’ascensione umana nei regni celesti, sia per le emanazioni divine nei mondi inferiori (vedi Afterman 2020, 150-151).

    Credo sia importante sottolineare come negli ultimi decenni, negli studi sulla mistica ebraica, sia stata pienamente rivalutata la matrice islamica, che era stata sottovalutata dal pioniere in questi studi, Gershom Scholem, il quale nelle Grandi correnti della mistica ebraica aveva studiato principalmente manoscritti provenienti dall’Italia e dalla Germania, tenendo conto del giudaismo del mondo islamico solo quando c’erano dei contatti diretti, come nel caso degli esuli dalla Spagna (Kiener 2011, 147).

    La conoscenza esoterica della qabalah assume il nome di teosofia. In essa è possibile, come vedremo, distinguere due filoni principali, basati su due tipi differenti di simbolismi usati dai cabalisti, quello degli attributi divini o sfere di luce e quello basato sui Nomi divini e le lettere che li compongono (Afterman 2020, 149-150).

    Una delle prime fonti della mistica ebraica è rappresentata dal Sefer Yetzirà (Libro della formazione), che presenta i simboli che i mistici successivi, in epoca medievale e moderna, svilupperanno ampiamente, le dieci sefirot. Nell’orizzonte biblico e orientale il numero dieci simboleggia la completezza (Busi 2016, 14). Il significato del termine sefirà è tutt’altro che ovvio. La radice s-f-r rappresenta la base di vari termini come sefer, sippur, mispar, sappir. Più remota l’ipotesi che derivi dal greco sfaira (Chajes 2020, 233). Il nome delle dieci sefirot deriva da un versetto delle Cronache (1Cr 29, 11), nel quale il re David elenca gli attributi divini. Nel Sefer Yetzirà le sefirot esprimeranno lo spazio (i punti cardinali, il sopra e il sotto), il tempo (due vettori) e i valori (bene e male) (Chajes 2020, 235). Le sefirot successivamente verranno identificate con le diverse facoltà psicologiche e qualità divine. I mistici descriveranno abbondantemente la dinamica delle relazioni fra le sefirot. All’interno della dottrina sefirotica si assisterà a uno sviluppo, che porteranno a delle differenziazioni fra i vari autori e scuole. Alcuni aspetti saranno condivisi dalla maggioranza dei cabalisti: a) la sefirot saranno ad esempio concepite come gradi, livelli attraverso i quali la forza divina agisce nel creato; b) sebbene siano invisibili, la loro influenza è percepibile sia nel macrocosmo che nel microcosmo umano; c) la suddivisione delle sefirot discende dalla struttura dell’intelletto umano, che può giungere alla conoscenza solo gradualmente: in realtà le sefirot sono unite nel Signore, mentre sono separate nella nostra limitata comprensione (Busi 2016, 14). La descrizione grafica più famosa delle sefirot è quella dell’albero sefirotico del Pardes Rimmonim di Moshè Cordovero (XVI sec.), ma ve ne sono molte altre, che vedono ad esempio le sefirot come sfere disposte sulla circonferenza di un cerchio, o come lettere ebraiche racchiuse l’una dentro l’altra (Busi 2016, 17). I mistici hanno considerato la rappresentazione grafica delle sefirot un aspetto molto importante, spesso sottovalutato dagli studiosi, che hanno attribuito maggiore peso alla parola scritta: un’introduzione alla qabalà, probabilmente risalente al XVI sec. italiano, Haqdamot umaftechot sheraui lekhol hanikhnas lechokhmat haqabalah lada’at otan, “Introduzioni e chiavi che è bene che chiunque sia introdotto nella scienza della qabalah conosca”, nel suo capitolo finale sottolinea come chi sia iniziato alla scienza della qabalà conosca tutte le rappresentazioni grafiche e come i mondi discendano l’uno dopo l’altro (Chajes 2020, 231). Solitamente le sefirot sono divise a loro volta in due raggruppamenti, tre superiori e sette inferiori.

    Le trasformazioni dell’influsso attraverso il quale le sefirot governano il mondo descrivono per i mistici quattro diversi mondi, atzilut (emanazione); beriah (creazione); yetzirah (formazione); ‘asiah (realizzazione). Nei vari mondi, che rappresentano i vari gradi della cosmogonia rabbinica, c’è un continuo scadimento di energia, mentre l’uomo può ripercorrere a ritroso questi stadi (Busi 2016, 19).

    Nel Sefer Yetzirà emerge altresì uno spiccato interesse per la dimensione linguistica. Le lettere dell’alfabeto ebraico vengono immaginate fissate in una ruota in duecentoventuno porte. La ruota torna avanti e indietro. Questa ruota esprime efficacemente l’idea del gioco delle permutazioni alfabetiche, che racchiude il segreto dell’origine del mondo (Busi 2016, 47). Secondo la dottrina mistica infatti D. crea il mondo combinando le lettere ebraiche. Non le legge, ma semplicemente le guarda, come se guardasse attraverso la Torah verso l’esteriorità della creazione, nella quale ha deciso di manifestarsi (Busi-Loewenthal 2006, VII). Il modello proposto dal Sefer Yetzirah ha la particolarità di proporre una sorta di “asemanticità del divino”, che rappresenta uno degli esperimenti più radicali di scomposizione del linguaggio (Busi 2002, 227). I mistici useranno ampiamente le tecniche di permutazione delle lettere, in modo particolare quelle dei Nomi divini. La riflessione mistica si concentrerà sul testo della Torà. L’interesse linguistico emergerà con forza nella qabbalà estatica di Avraham Abulafia, che considerava l’alfabeto l’ambito privilegiato per la ricerca del divino.

    All’inizio del medioevo si è sviluppato un genere letterario, quello della letteratura degli hekhalot, che descrivono visioni celestiali, attribuite a personaggi biblici o figure rabbiniche. Gershom Scholem definì questo tipo di letteratura gnosticismo ebraico. In questi testi è presente una descrizione dettagliata dei cieli, normalmente sette, spesso sorvegliati da creature angeliche. L’ultimo dei cieli contiene sette hekhalot (palazzi). Penetrare nei palazzi divini significa dunque impadronirsi di una geografia trascendente, che ritrae l’invisibile con la precisione di una mappa (Busi 2016, 43). Nel più interno dei palazzi su un trono si trova una suprema immagine divina, la Gloria di D. o una figura angelica. Elementi della letteratura degli hekhalot convergono anche nei viaggi celesti cristiani o islamici (Kiener 2011, 149-150). C’è tuttavia una differenza importante: gli esseri intermedi che si trovano fra l’uomo e D. non sono dotati di poteri demiurgici e non sono assimilabili propriamente a D. (Capelli 2021, 296).

    Bisogna sottolineare come nella mistica ebraica l’essenza divina, che è inconoscibile e inafferrabile per l’uomo, non rappresenta un ambito di indagine, poiché il Signore è considerato En Sof (senza fine), secondo la dottrina che esprimerà, all’inizio del XIII sec., Yitzchaq il Cieco. Questa visione con ogni probabilità è stata influenzata dall’apofatismo di stampo maimonideo (Chajes 2020, 233). Ciò che nella mistica è oggetto di riflessione sono le emanazioni divine.

    Riferimenti bibliografici

    Afterman, Adam 2020. The Mystical Theology of Kabbalah: From God to Godhead, in The Cambridge Companion to Jewish Theology, a cura di S. Kepnes. Cambridge: Cambridge University Press. 149-181.

    Busi, Giulio, 2002. Lettere della creazione. Usi e concezioni asemantiche dell’alfabeto nel giudaismo, in Alfabeto in sogno, a cura di C. Parmiggiani. Milano: Mazzotta. 227-256.

    Busi, Giulio, 2016. La Qabbalah. Roma-Bari: Laterza.

    Busi, Giulio -Loewenthal, Elena, 2006. Mistica ebraica. Torino: Einaudi.

    Capelli, Piero, 2021. Sulle radici bibliche della mistica ebraica. Humanitas 76 (Supl/2021). 296-307.

    Chajes, J. H., 2020. Spheres, Sefirot, and the Imaginal Astronomical Discourse of Classical Kabbalah, Harvard Theological Review 113:2. 230-262.

    Gatti, Roberto, 2003. Ermeneutica e filosofia. Genova: Il melangolo.

    Kellner, Menachem, 2020. Faith, Science and Orthodoxy, Conversations 35. 1-13.

    Kiener, Ronald C. 2011. Jewish Mysticism in the Lands of the Ishmaelites, in The Convergence of Judaism and Islam: Religious, Scientific, and Cultural Dimensions, a cura di M. M. Laskier e Yaakov Lev. Gainesville: University Press of Florida.

    Leicht, Reimund, 2013. Major Trends in Rabbinic Cosmology, in Hekhalot Literature in Context, a cura di R. Boustan, M. Himmelfarb, P. Schafer. Tubingen: Mohr Siebeck.

    Mottolese, Maurizio, 2006. Le forme di Dio e la tradizione rabbinica. Per una fenomenologia del discorso mitico e mistico nel monoteismo ebraico. Etica e politica/Ethics & Politics VIII. 25-49. Zonta, Mauro, 2005. Metaphysics in Medieval Hebrew Tradition. A Short Historical Sketch. Quaestio 5. 243-258.

    Da morasha.it
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    Chayè Sarà. Le parole per dirlo
    ISHAI RICHETTI 18/11/2022

    Tempio di via Eupili – Milano


    Qual è l’atteggiamento ebraico nei confronti delle parole? La grandezza del popolo ebraico si manifesta attraverso le parole. Non essendo mai stato un popolo numeroso, il suo messaggio al mondo è stato trasmesso solo attraverso il potere della parola. Da quando Yitzchak disse: “La voce è la voce di Yaakov e le mani sono le mani di Esav” (Bereshit 27:22), la tradizione sostiene che la forza e la potenza del popolo di Israele giace nella sua bocca, nelle sue parole. Il messaggio della Torà è indicato come “le parole del patto” (Shemot 34:28). Ciò che il mondo occidentale chiama i Dieci Comandamenti, la nostra tradizione chiama “aseret hadibrot” – le “dieci parole”, e quando gli ebrei parlano di una gemma spirituale, dicono in ebraico un “devar Torà”, “una parola della Torà”. Ma le parole, nella nostra concezione, hanno una funzione ancora più universale.

    Le parole sono la malta che lega l’uomo con i suoi simili. Senza l’ampio uso delle parole, gli esseri umani non si raggrupperebbero mai in una società, non ci può essere comunicazione, studio, scuola, società, civiltà, impresa o commercio. Onkelos, il grande traduttore aramaico della Torà, aveva questo in mente quando offrì una traduzione insolita del versetto della Torà in cui si riferisce che D-o soffiò l’alito della vita in Adamo: “Vayehi ha’adam lenefesh chaya”, che di solito traduciamo con “E l’uomo divenne un’anima vivente” (Bereshit 2:7). Onkelos lo traduce: “Ed esso (il soffio di D-o) divenne nell’uomo uno spirito parlante”. L’anima vivente dell’uomo è il suo spirito parlante. L’unicità dell’uomo, il suo intelletto, sarebbe muto e silenzioso se non fosse per la sua capacità di usare le parole e quindi articolare le sue idee razionali e i sentimenti del suo cuore.

    Una parola ha una vita, una biografia, un carattere e un’anima propri ma la parola può anche dare vita o togliere vita all’essere umano. Una parola può ripristinare e una parola può uccidere. Una parola può dare a un uomo la reputazione di saggezza o contrassegnarlo come uno sciocco. Per questo motivo, l’ebraismo considera le parole qualcosa di più di semplici unità verbali, qualcosa di più di un’altra forma di comunicazione. Le parole sono – o dovrebbero essere – sante.

    Quando la Torà ordina di non infrangere la propria parola, dice: “Lo yachel devaro” (Bamidbar 30:3). I Chachamim notano nel Talmud Yerushalmi (Nedarim 2:1) che yachel è una parola insolita e la spiegano come il divieto di profanare la propria parola. Solo ciò che è santo può essere reso profano, quindi le parole dell’uomo quindi devono essere sante.

    Nella nostra Parashà leggiamo: “E Avraham venne a piangere per Sara”. La parola “livkotà”, piangere, (Bereshit 23:2) nel Sefer Torà è scritta con una lettera kaf che è più piccola del normale. È un kaf ketana, un kaf in miniatura. Perché?

    Il Ba’al haTurim spiega che Avraham non pianse né parlò troppo. Naturalmente Avraham ha detto qualcosa, ha fatto un’elegia funebre, quasi sicuramente ci sono stati pianti, lutti ed elogi. Di sicuro Avraham ha dato un’espressione articolata al dolore che gli sgorgava dal petto perché un uomo che non può esprimere il suo dolore e i suoi sentimenti è come un uomo che mantiene il veleno dentro. Non piangere può essere psicologicamente pericoloso, ma anche il pianto non deve essere esagerato. Avraham ha capito che troppe parole sono una fuga dal confronto con la realtà, che usando troppe parole avrebbe dissipato i veri sentimenti che aveva dentro di sé. Voleva che rimanesse qualcosa, qualcosa di deliziosamente privato, dolorosamente misterioso, qualche residuo di memoria e amore e affetto per Sara che non voleva condividere con il resto del mondo. E così la kaf ketana ci viene ad indicare che Avraham sapeva come limitare lo sfogo delle sue parole.

    Nel mondo d’oggi siamo dominati da un’industria delle comunicazioni. Viriamo costantemente tra incontri e discussioni, simposi e forum, conferenze e sermoni, pubbliche relazioni e propaganda. Siamo perseguitati continuamente da radio, televisione e telefono, siamo la civiltà “più parlante” di tutta la storia. Abbiamo disperatamente bisogno di quella kaf ketana. Lo stesso Moshè era un balbuziente e a causa di questo pronunciò poche parole, ma qualunque cosa dicesse fu incisa in lettere di fuoco sulla coscienza del popolo. Shammai nei Pirkè Avot ci ricorda: “Parla poco, ma fai molto” (Pirkè Avot 1:15). Altri Chachamim hanno detto che “La via per la saggezza passa attraverso il silenzio” (Pirkè Avot 1:17). Il Ba’al Shem Tov, intende la stessa cosa in un commento relativo al comando che D-o dà Noach: “Farai luce per l’arca”. La parola ebraica usata per l’arca costruita da Noach – Tevà – significa non solo “arca” ma anche “parola”. Il comando che Noach riceve, quindi può essere inteso in questo modo: Rendi ogni parola brillante, viva, splendente, scintillante e illuminante. Usa la parola per illuminare, non per confondere.

    Le parole sono importanti e potenti, quindi sono sacre e, poiché sono sacre, devono essere usate con grande, estrema cautela. Le parole comunicano il nostro stato d’animo, ma possono comunicare molto di più. Possono essere un supporto, un incoraggiamento, un elogio ben speso delle qualità uniche del prossimo. La comunicazione è molto importante, la comunicazione corretta lo è molto di più. Attraverso l’uso corretto della parola possiamo stabilire relazioni durature e costruttive, possiamo creare benessere e armonia. Possiamo in definitiva, attraverso l’uso corretto della parola, contribuire a creare un mondo migliore.

    Da morasha.it
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    Nella nostra Parashà leggiamo: “E Avraham venne a piangere per Sara”. La parola “livkotà”, piangere, (Bereshit 23:2) nel Sefer Torà è scritta con una lettera kaf che è più piccola del normale. È un kaf ketana, un kaf in miniatura. Perché?

    Il Ba’al haTurim spiega che Avraham non pianse né parlò troppo. Naturalmente Avraham ha detto qualcosa, ha fatto un’elegia funebre, quasi sicuramente ci sono stati pianti, lutti ed elogi. Di sicuro Avraham ha dato un’espressione articolata al dolore che gli sgorgava dal petto perché un uomo che non può esprimere il suo dolore e i suoi sentimenti è come un uomo che mantiene il veleno dentro. Non piangere può essere psicologicamente pericoloso, ma anche il pianto non deve essere esagerato. Avraham ha capito che troppe parole sono una fuga dal confronto con la realtà, che usando troppe parole avrebbe dissipato i veri sentimenti che aveva dentro di sé. Voleva che rimanesse qualcosa, qualcosa di deliziosamente privato, dolorosamente misterioso, qualche residuo di memoria e amore e affetto per Sara che non voleva condividere con il resto del mondo. E così la kaf ketana ci viene ad indicare che Avraham sapeva come limitare lo sfogo delle sue parole.

    Da morasha.it
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    Onkelos, il grande traduttore aramaico della Torà, aveva questo in mente quando offrì una traduzione insolita del versetto della Torà in cui si riferisce che D-o soffiò l’alito della vita in Adamo: “Vayehi ha’adam lenefesh chaya”, che di solito traduciamo con “E l’uomo divenne un’anima vivente” (Bereshit 2:7). Onkelos lo traduce: “Ed esso (il soffio di D-o) divenne nell’uomo uno spirito parlante”. L’anima vivente dell’uomo è il suo spirito parlante. L’unicità dell’uomo, il suo intelletto, sarebbe muto e silenzioso se non fosse per la sua capacità di usare le parole e quindi articolare le sue idee razionali e i sentimenti del suo cuore.

    Da morasha.it
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    L’orsa JJ4 e la Halakhà


    RAV ALBERTO SOMEKH 19/04/2023


    “E uscirono due orse dalla boscaglia e sbranarono quarantadue dei ragazzi…” (2Melakhim 2,24).

    Non fu, ahimè, un episodio isolato. L’opinione pubblica è oggi divisa sulla sorte di JJ4, l’orsa che ha recentemente ucciso un ventiseienne in Val di Sole, dopo aver ferito gravemente altre persone in passato. Il suo branco è stato importato nel 2000 dalle autorità locali per un progetto di ripopolamento faunistico del Trentino occidentale finanziato dalla Comunità Europea. Tenterò una lettura della questione ai sensi della Halakhah, senza togliere ad altri il compito di trovare una soluzione adeguata. Esprimo anzitutto la mia solidarietà alla famiglia in lutto.

    L’orso è nominato nel Tanakh tredici volte, spesso associato al leone. In Eykhah 3,10 è usata la metafora “orso insidiatore”. Nella profezia messianica di Yesha’yahu (11,7) si prospetta che “la mucca e l’orso pascoleranno insieme”: la mitezza della prima ridimensiona l’aggressività del secondo. I Maestri del Talmud (Qiddushin 72a) paragonano i Persiani per certi loro comportamenti grossolani all’orso, animale goffo che si muove senza posa. Altre volte l’orso diviene addirittura simbolo della tentazione (Bereshit Rabbà 87,3).

    L’indole pericolosa dell’orso è riflessa nelle fonti halakhiche fin da antico. Tre sono i passi della Mishnah che ci interessano in particolare. In ‘Avodah Zarah 16a i Maestri hanno proibito la vendita di orsi e leoni a non ebrei al pari delle armi, a prescindere dalla loro nocività individuale (Maimonide, Hil. ‘Avodah Zarah 9,8 e Lechem Mishneh ad loc.). Seguendo questa logica l’iniziativa delle autorità trentine di reintrodurre gli orsi in regione è per lo meno discutibile. Se, come vedremo, estinguere gli animali è proibito, non c’è peraltro alcun obbligo di rimpiazzare specie pericolose laddove siano già estinte, quale che ne sia stata la causa: soprattutto mettendoli di fatto a contatto con l’uomo, come attesta la cronaca.

    Una seconda fonte della Mishnah è in Bavà Qammà 15b, dove si parla di risarcimento di danni inferti dagli animali attraverso la loro aggressività. La materia è chiamata qèren (“corno”) dal fatto che la Torah stessa li esemplifica attraverso il toro cozzatore (Shemot 21,28-29), ma nel caso di specie differenti include anche graffi e morsi. La regola prevede che fino a tre episodi il toro non sia considerato di indole violenta (tam, lett. “ingenuo”) e obbliga il padrone a rifondere solo metà del danno. Se l’animale è tre volte recidivo diviene invece “avvertito” (mu’àd): il padrone avrebbe dovuto trarne le proprie responsabilità ed è chiamato a ripagare il danno per intero. Ciò vale per un animale domestico, mentre si afferma che “il lupo, il leone, il leopardo, l’orso, la pantera e il serpente” sono mu’adim per definizione. R. El’azar propone di distinguere anche fra questi gli esemplari addomesticati, ma la Halakhah non accoglie la sua opinione: si presuppone che le bestie feroci non siano addomesticabili e i danni da esse provocati vanno in ogni caso risarciti per intero (Maimonide, Hil. Nizqè Mamòn 1,5).

    Infine in Sanhedrin 15b si torna a parlare della sorte dei sei animali selvatici nell’ambito di una discussione sulla competenza dei tribunali di infliggere pene. Il Talmud riporta due controversie:

    1) se un animale feroce debba subire regolare processo (R. ‘Aqivà) o no (R. Eli’ezer);

    2) se l’opinione di R. Eli’ezer per cui chiunque può uccidere un animale feroce si applica solo dopo che l’animale abbia effettivamente ucciso a sua volta (Reish Laqish) oppure anche prima (R. Yochanan):

    nella prima ipotesi si suppone che l’animale sia addomesticabile fino a prova contraria; nella seconda lo si considera violento per definizione (Rashì). Meirì ritiene invece che si tratti di un’unica controversia (R. ‘Aqivà=Reish Laqish e R. Eli’ezer=R.Yochanan) e che la questione sia se l’animale feroce vada considerato proprietà di chi lo alleva o invece alla stregua di “una buca nel suolo pubblico”: nel primo caso deve intervenire regolare processo; nel secondo l’animale può essere ucciso da chiunque, ma comunque il proprietario paga i danni. Maimonide (Sanhedrin 5,2) stabilisce la Halakhah secondo l’opinione di R. ‘Aqivà attraverso quella di Reish Laqish, per cui qualsiasi animale feroce addomesticato (con la sola eccezione del serpente) va trattato alla stregua del toro: può essere ucciso solo se ha ucciso a sua volta e dopo regolare processo a carico dei proprietari. Resta ancora da capire perché in Sanhedrin si ammetta la possibilità di ammaestrare l’orso e in Bavà Qammà no: un conto è il risarcimento della vittima, che richiede il massimo della disponibilità nei suoi confronti, altro conto è l’abbattimento degli animali (Tossafot s.v. we-R. Yochanan): “certamente inseguirli nei boschi dove hanno le tane se non vengono di loro iniziativa nei centri abitati non è affatto Mitzwah, bensì solo soddisfazione dei propri capricci” (Resp. Nodà’ Bihyudah II ed., Yoreh De’ah n. 10).

    In sintesi: 1) è lecito sopprimere l’esemplare assassino, inibendo il suo raggio d’azione all’accesso degli uomini fino ad abbattimento avvenuto; 2) le autorità responsabili della riammissione degli animali risarciscano la famiglia colpita in misura adeguata: nessuno le restituirà il ragazzo, ma la sua morte non può essere considerata una semplice fatalità; 3) per il resto del branco occorre studiare attentamente, di concerto con esperti, la soluzione migliore a tutela dell’incolumità di tutti, uomini e animali, affidando questi anche a una riserva recintata (Resp. Yechawweh Da’at 3,66; Resp. ‘Asseh lekhà Rav 1,69). Come dice il versetto: “la Sua misericordia è su tutte le Sue creature” (Tehillim 145,9)!

    https://moked.it/blog/2023/04/19/lorsa-ji4-e-la-halakhah/
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    Salvare gli ostaggi? “Non si sacrifica una vita al posto di un’altra”

    RAV ALBERTO SOMEKH 12/02/2024


    Mentre prosegue nella Striscia di Gaza la controffensiva israeliana sempre più a sud verso il confine egiziano, si intensificano le pressioni internazionali affinché il governo di Benjamin Netanyahu si pieghi a una richiesta di cessate il fuoco definitivo. I palestinesi offrirebbero la liberazione degli ostaggi tuttora in mano di Hamas in cambio del ritiro totale delle forze militari dall’area e il rilascio di un numero spropositato di terroristi attualmente detenuti nelle carceri israeliane per crimini anche molto gravi. Ciò pone un dilemma: cedere per salvare gli ostaggi o preferire la sicurezza dello Stato? Molte considerazioni che seguono sono tratte dal saggio intitolato “Mishnat Chassidim: Minaccia collettiva e sopravvivenza individuale” che pubblicai nel 5778-2018 sul n. 12 della rivista “Segulat Israel”, al quale rimando senz’altro per le fonti e gli approfondimenti.

    Del Pidyon Shevuyim Maimonide scrive che “ha la precedenza sulla beneficenza ai poveri e sull’obbligo di dar loro da vestire. Non c’è Mitzwah più grande che riscattare i prigionieri” (Mishneh Torah, Hilkhot Mattenot ‘Aniyim 8, 10-11). Con tutto ciò la Mishnah (Ghittin 4, 6) stabilisce che “i prigionieri non possono essere riscattati oltre il loro valore, per il bene del mondo (mi-ppenè tiqqun ha-’olam)”. Il Talmud spiega questa disposizione con l’esigenza di non incoraggiare i nemici a perpetrare il crimine per l’avvenire, sapendo di poter contare sulla disponibilità economica degli ebrei. È nota la storia di R. Meir di Rothenburg (fine XIII secolo), che proibì ai suoi discepoli di riscattarlo e finì i suoi giorni in prigionia. Va notato, peraltro, che queste fonti si riferiscono a rapimenti a scopo di estorsione, casi lontani dalla situazione attuale relativa agli ostaggi.

    Il Talmud Yerushalmì, Terumot, 8, scrive: “Se un gruppo di viandanti (ebrei) si imbatte negli stranieri che dicono loro: ‘Consegnateci uno di voi e lo uccideremo, altrimenti vi uccidiamo tutti’, si lascino uccidere tutti ma non consegnino un’anima in Israel”. Il principio halakhico è che non si sacrifica un’anima al posto di un’altra (eyn dochin nefesh mi-penè nefesh) e pertanto non abbiamo il diritto di consegnare qualcun altro per salvare noi stessi. La ragione è ben espressa dal detto talmudico: “Forse che il tuo sangue è più rosso del suo?” (Pessachim 25b, Sanhedrin 74a). Lo scopo di questa resistenza è anche dimostrare che ogni singola vita ebraica ha per noi importanza e siamo pronti a combattere per essa. “Se però (gli stranieri) hanno indicato per nome uno degli ebrei come era accaduto con Sheva’ ben Bikhrì e abbiano detto: ‘Consegnateci il tale, altrimenti vi uccideremo tutti’, in questo caso è permesso consegnare la persona indicata per salvare le altre”. Dal momento che il soggetto designato è destinato a morire comunque, qui non si sacrifica più un’anima per un’altra. Lungi dall’essere una consegna forzata, lo si convince a farsi avanti per risparmiare la vita di tutti gli altri. Non solo. L’episodio cui il Talmud si riferisce è narrato in 2 Shemuel, 20. Sheva’ ben Bikhrì era passibile di morte per essersi ribellato contro il re David e si era barricato entro le mura di Avèl Bet Ma’akhah. Quando Yoav generale del re mise l’assedio alla città si fece avanti una “donna saggia” nell’intento di trattare con lui la liberazione. Yoav le spiegò di essere alla ricerca di Sheva’ in quanto “aveva levato la sua mano contro il re”. La donna fece uccidere Sheva’ dagli abitanti della città, ne consegnò la testa a Yoav e l’assedio fu tolto.

    Neanche questa fonte è sufficiente per dirimere il nostro interrogativo. A differenza di Sheva’ ben Bikhrì i nostri ostaggi odierni non hanno commesso nessun crimine da espiare con la pena capitale. D’altronde non si tratta di consegnarli: essi si trovano già nelle mani di Hamas. Forse possiamo confrontarci con un altro famoso brano, tratto questa volta dal Talmud Bavlì: “Due individui sono in viaggio e uno dei due è provvisto di una borraccia d’acqua: se bevono entrambi muoiono, mentre se beve uno solo dei due ha la possibilità di raggiungere l’abitato più vicino. Ben Petorà interpretava che è meglio che entrambi bevano e muoiano piuttosto che uno debba assistere alla morte dell’altro. Finché giunse R. ‘Aqivà e insegnò: ‘La vita di tuo fratello è con te (ma non più di te)’ (Wayqrà 25, 36): la tua vita ha la precedenza su quella di tuo fratello” (Bavà Metzi’à 62a). Anche in questo caso la controversia riguarda la sopravvivenza individuale a fronte della morte collettiva, ma la Halakhah è stata stabilita secondo R. ‘Aqivà. Qual è la ragione della differenza? “L’apparente contraddizione può essere risolta facendo una distinzione fra consegna attiva (chiyuv o ma’asseh) e consegna passiva (shelilah o meni’ah). Se si segue la logica di R. ‘Aqivà e non si passa la borraccia dell’acqua al compagno, la morte di quest’ultimo è semplicemente la conseguenza passiva di un’azione mancata. All’opposto consegnare un’anima ebraica agli assassini è provocarne attivamente la morte. Ecco perché in quest’ultimo caso il principio per cui ‘la tua vita ha la precedenza’ non vale. È meglio morire piuttosto che consegnare alla morte il proprio fratello” (Rav M.A. Amiel, “Ethics and Legality in Jewish Law”, Amiel Library, Gerusalemme, 1992, p. 67 – ingl.).

    A proposito del principio “Non si sacrifica una vita al posto di un’altra” si può citare il caso di Entebbe. Il 4 luglio 1976 l’esercito israeliano intervenne con la forza a salvare gli ostaggi di un volo dirottato da terroristi che avevano condizionato la loro liberazione al rilascio di detenuti pericolosi per la sicurezza internazionale. La vicenda pose almeno due ordini di problemi: 1) è lecito aderire alla richiesta di scarcerare dei terroristi per non mettere a repentaglio le vite di ostaggi innocenti? 2) è lecito mettere a repentaglio le vite dei soldati al posto di quelle degli ostaggi? R. ‘Ovadyah Yossef, allora Rabbino Capo sefardita dello Stato d’Israele, rispose ad entrambe le domande in senso affermativo, invocando il medesimo principio: si ha l’obbligo di mettere a rischio eventuale la propria vita per salvare altri da morte certa. Ciò comporta il permesso di liberare terroristi che in futuro potrebbero attentare a vite umane a fronte dell’imminente esecuzione degli ostaggi. Quanto all’azione dell’esercito, si è esenti dall’intervenire in aiuto della vita altrui solo se il rischio della propria è significativo. In caso contrario esiste l’obbligo di farlo.

    Si può obiettare anche a questo proposito che la situazione oggi è cambiata sotto almeno tre aspetti. 1) Le fonti antiche si riferiscono per lo più a episodi localizzati, senza una ricaduta sull’intero popolo ebraico. 2) Oggi c’è una guerra in corso. Le operazioni militari a Gaza non hanno solo lo scopo di liberare gli ostaggi e di punire i responsabili del loro sequestro, ma anche esercitare un’azione deterrente e soprattutto impedire che gli attacchi continuino e si ripetano in futuro. 3) Il punto a mio avviso giuridicamente più rilevante è però il seguente: non abbiamo alcuna garanzia dello stato di salute degli ostaggi, possiamo ancora ritenerli be-chezqat chayyim (“nella presunzione halakhica di vitalità”)? Pur augurandoci che siano ancora vivi, provati da oltre quattro mesi di quel tipo di prigionia potrebbero trovarsi ridotti allo status halakhico di terefah (“malato terminale”), o meglio di gosses bidè adam (“agonizzante per colpa dell’uomo”). Se in altre condizioni la Mishnah (Yomà 8, 7) stabilisce che per salvare chi è finito sotto le macerie si scava di Shabbat anche se la speranza di ritrovarlo in vita è estremamente tenue e se sopravvivrà pochi istanti soltanto, nel nostro caso si pone la domanda se la salvaguardia dell’intera popolazione non diventi una priorità rispetto al salvataggio di queste persone a ogni costo. Sulla base di un episodio occorso a ‘Ullà (Nedarim 22a) una serie di Maestri stabilisce che è permesso a un gruppo di ebrei aggredito da un nemico sanguinario sacrificare uno di loro che sia una terefah piuttosto che venire uccisi (Meirì a Sanhedrin 72b; Minchat Chinnukh, prec. 296; cfr. anche Tif’eret Israel a Mishnah Yomà 8). Ma non tutti sono d’accordo. R. Yechezqel Landau (Praga, sec. XVII) scrive testualmente: “Non si è mai sentito che sia permesso sacrificare una terefah per salvare la vita di un individuo shalem” (“in salute”; Resp. Nodà bi-Yhudah, Mahadurà Tinyanà, Choshen Mishpat n. 59)!

    Qui mi fermo: non spetta a me andare oltre una semplice presentazione dei dati principali del dilemma. Che H. ispiri nei governanti la giusta decisione! Mi limito solo a due raccomandazioni. La prima è legata alla Mitzwah del Qiddush ha-Shem (“santificazione del Nome”). Che la linea intrapresa, quale che sia, non sia fonte di ulteriori divisioni nella nostra compagine. Eviteremo il gioco dei nostri nemici i quali, spingendoci all’odio reciproco e alla lite, mettono a repentaglio di proposito l’unità della comunità ebraica. E soprattutto ricordiamoci che ciascun essere umano è stato creato a immagine divina e pertanto ogni singola personalità è dotata di valore infinito.. La somma di più infiniti non può essere maggiore di un solo infinito. Il popolo ebraico non è mai la semplice somma aritmetica dei suoi membri presi indipendentemente l’uno dall’altro, bensì è un organismo in cui ciascuno è indispensabile. Per l’avvenire auspichiamo solo buone notizie!

    https://moked.it/blog/2024/02/12/la-rifles...re-gli-ostaggi/
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    Benvenuti a Nidui

    Di R. Gidon Rothstein
    4 agosto 2020



    Relativamente all'inizio delle nostre lotte con questo et tzarah e magefah , periodo di difficoltà e pestilenza, quando ero ottimista che Dio potesse liberarci rapidamente, ho suggerito che la necessità del distanziamento sociale fosse la prova che eravamo menudim min ha-Shamayim , collocati in nidui dal Cielo, e ha offerto alcune riflessioni su come “convincere” Dio a rilasciare i nidui .

    La pandemia continua e il mio senso di nidui non fa che aumentare, spingendomi ad approfondire le regole del nidui umano , nella speranza che il nostro studio sia esso stesso un merito per essere sollevato e ci aiuti anche a concentrarci sull'agire in modi celesti. apprezzerà, per così dire, e ci libererà per tornare a tutte e solo le parti belle delle nostre vite precedenti.

    La sorgente e il parametro fondamentale

    Arukh Ha-Shulhan Yoreh De'ah 334;1 inizia ricordando che gli ebrei seguivano sempre le leggi e le ordinanze locali. Ai suoi tempi, solo i governi musulmani consentivano alle comunità ebraiche di esercitare il nidui come forma di disciplina. Gli ebrei europei obbediscono al governo, quindi nidui è interamente accademico. Qualcuno, forse il Prof. Simha Fishbane , che ha pubblicato la sezione di Arukh HaShulhan sui giuramenti e le promesse dal manoscritto, ci dice che l'ha scritta per placare la censura.

    Arukh Ha-Shulhan caratterizza il verso di origine per l'idea di nidui come proveniente dalla Torah. In realtà, si tratta di un versetto in Shofetim , Giudici, che ricorda la complessa interazione halakhica tra la Torah e il resto del Tanakh come fonti della pratica ebraica.

    Mo'ed Katan 16a cita il versetto nella domanda, dal Cantico di Devorah, dove lei e Barak chiedono che Meroz e il suo popolo siano maledetti per non essere venuti in aiuto di Dio, per così dire. Due punti di interesse laterali: Arukh Ha-Shulhan racconta l'intero retroscena, Meroz era un uomo ricco che rimase lontano dalla guerra contro Sisera, nonostante la chiamata di Devorah e Barak. Dopo la vittoria, come parte della loro Canzone, lo disciplinano per il suo fallimento. Apparentemente dubitava che i suoi lettori – che dovevano essere in qualche modo istruiti per poter leggere il libro – conoscessero la storia.

    In secondo luogo, Shofetim 5:23 parla di un malakh Hashem che maledice Meroz, solitamente tradotto con un angelo di Dio. Arukh Ha-Shulhan ci ricorda che gli studiosi e i profeti della Torah sono anche chiamati mal'akhim nelle Scritture, perché la parola significa realmente messaggero, e anche loro sono messaggeri di Dio.

    Fondamentalmente, nidui annuncia l'obbligo di separarsi da un certo ebreo, di non mangiare e bere con lui/lei, di non trovarsi entro i quattro amot (6-8 piedi, a seconda della lunghezza di un amah ). Il versetto ci dice anche cosa ha fatto Meroz, dicendoci che dovremmo annunciare ciò che ha fatto un peccatore che ha portato al suo nidui .

    Quali sono le cause di Nidui

    Lo stesso Shulhan Arukh non ha fornito alcun background, si è lanciato subito con l'idea di dichiarare nidui chiunque violi un divieto. Arukh HaShulhan 334;4 sottolinea la mancanza di chiarezza halakhica riguardo al collocare qualcuno in nidui per aver violato un divieto rabbinico. La Gemara parla chiaramente di makkat mardut , le frustate rabbiniche per tali derisioni, è meno chiaro riguardo a nidui . Arukh Ha-Shulhan ci dice che Ran a Pesahim distingueva quelle regole rabbiniche con un collegamento a una legge biblica da quelle puramente rabbiniche. Qualcuno che dubita o nega il diritto dei rabbini di stabilire regole, tuttavia, sarebbe certamente idoneo al nidui , secondo Kessef Mishneh , che nota anche che Eruvin 63a racconta di rabbini che mettono un uomo in nidui per aver usato un albero durante lo Shabbat, un problema rabbinico. . Lascia la questione irrisolta, anche se queste persone sono certamente chiamate peccatori.

    Nidui può venire anche per crimini finanziari, come rifiutarsi di obbedire a una citazione in tribunale o aderire alle sue sentenze, discusse in Hoshen Mishpat . Lì è richiesto un avvertimento, lunedì/giovedì/lunedì, prima che venga dichiarato nidui . (Il ritmo lunedì/giovedì/lunedì sembra prezioso da sottolineare, perché molti ai nostri giorni trovano modi per allungare e ritardare in modo intollerabile. Mentre Rema voleva che sapessimo che il nidui finanziario arriva solo dopo l'avvertimento, ci vuole solo una settimana .) Shakh aggiunge fonti da Beit Yosef che ritiene che qualche avvertimento sia necessario anche per altri divieti, ma non per quelli formali lunedì/giovedì/lunedì.

    Si presume che qui il nidui duri trenta giorni ( Shakh ha Beit Yosef con l'esempio di uno studioso della Torah di passaggio che mise qualcuno in nidui - un suo diritto - e poi se ne andò; il tribunale locale rimuove il nidui dopo trenta giorni, su presupposto che fosse l'intento dello studioso), in Israele. Al di fuori di Israele, nidui era di sette giorni, e nezifah , un'espressione minore di dispiacere per la condotta di un ebreo, sarebbe stato solo un giorno invece dei sette in Israele.

    Se il peccatore rimane saldo, il nidui può essere ripetuto e, se il pentimento non è ancora imminente, la persona verrà messa in herem . Shakh pensava che il ritmo più veloce del nidui al di fuori di Israele avrebbe significato che l'erema avrebbe potuto essere appropriato dopo due niduiyim di una settimana , mentre in Israele il peccatore avrebbe due niduiyim di un mese prima di essere colpito dalla scomunica più grave. Shakh riconosce la novità del suo suggerimento, non avendo visto nessun altro che fosse d'accordo, e quindi rifiuta di metterlo in pratica, dice che passare da nidui a herem sembra richiedere due interi divieti di trenta giorni, peccatore risoluto nel suo rifiuto di pentirsi .

    Nidui non è interrotto dalle festività (a differenza del lutto).

    Il pericolo della disciplina

    Rema apre un vaso di fiori con la sua codificazione del punto di vista di Terumat Ha-Deshen secondo cui un tribunale dovrebbe dichiarare nidui indipendentemente da come reagirà il peccatore. Alcuni peccatori, lo sapeva già, si ribelleranno, abbandoneranno la religione (e la comunità), chiamata going le-tarbut ra'ah, letteralmente una cattiva cultura. Terumat Ha-Deshen e Rema hanno ritenuto che un tribunale debba imporre la disciplina. Le scelte sbagliate dei peccatori in risposta sono un problema loro, non della comunità.

    Il vigoroso disaccordo di Taz evidenzia la necessità di considerare l'equilibrio tra l'obbligo di una comunità di esprimere la propria disapprovazione per una condotta sbagliata e la preoccupazione che ciò si ritorcerà contro l'individuo. Taz presuppone innanzitutto che chiunque lasci l'ebraismo non tornerà, quindi se le azioni della comunità lo portano oltre il limite, la comunità condanna la persona a una vita lontana dalla corretta osservanza.

    Taz pensa anche che R. Isserlein (l'autore di Terumat Ha-Deshen ) abbia letto troppo in Kiddushin 72a, dove R. Yehudah Ha-Nasi parla di R. Aha berebbe Yehoshu'a che aveva posto certe persone in nidui , che poi avevano abbandonato il giudaismo. . R. Isserlein pensava che R. Yehudah Ha-Nasi ne avesse parlato alle persone intorno al suo letto di morte per ratificare la scelta di R. Aha; se le persone meritano nidui , le mettiamo in nidui e lasciamo loro le loro reazioni.

    Taz ha un'altra visione di R. Yehudah Ha-Nasi, liberandolo di non essere d'accordo anche sull'uso di nidui . Pensa che R. Yehudah Ha-Nasi abbia parlato di R. Aha come un modo per dimostrare che in quel momento era al livello della profezia, sapeva cosa stava accadendo allora molto lontano (R. Aha berebbe Yehoshu'a era a Bavel), per dimostrare la verità delle sue altre affermazioni sul letto di morte. Fiducioso di avere ragione, Taz potrebbe quindi ignorare la storia riguardo alla questione se bandire o meno qualcuno quando quella persona potrebbe abbandonare la religione.

    Per lui, un passaggio precedente in Kiddushin , 20b, dimostra il contrario. La Gemara richiede agli ebrei di riscattare un ebreo che si è venduto come schiavo al culto di un potere diverso da Dio, tagliando legna o altro. Tanna de-bei R. Yishma'el ha dedotto la regola da Vayikra 25;48, dopo essere stato venduto, ge'ulah tihyeh lo, dovrebbe ancora essere redento. La tanna si riferisce all'ebreo che si vendette come qualcuno che era diventato sacerdote per un culto di poteri diversi da Dio.

    In altre parole, dice Taz, l'ebreo ha fatto del male, eppure la Torah ci dice di riscattarlo; immagineremmo allora di essere la causa dell'adesione di un ebreo ad un'altra religione?

    Prima di esaminare un’altra delle sue prove, vediamo già i contorni del disaccordo. Taz pensa che salviamo gli ebrei da se stessi anche a costo della capacità della comunità di promuovere o imporre un comportamento corretto, laddove Terumat Ha-Deshen e Rema pensano che le comunità agiscano secondo necessità, lasciando a ciascun ebreo la scelta della propria reazione.

    Far sposare una coppia

    Shu”t Mahari Mintz 5 è l'ultima fonte di Taz. Cita solo una riga, dove Mahari Mintz dice di aver visto la necessità di salvare due anime ebree dall'abbandono della religione (con la stessa frase, she-lo yetz'u le-tarbut ra'ah , non vanno ad una cattiva cultura) , e quindi ha permesso a una madre che allattava di sposarsi. Ha permesso alla coppia di violare una regola per proteggere la loro osservanza ebraica (le madri che allattano non dovrebbero sposarsi, per paura che il nuovo matrimonio influenzi la volontà o la capacità della madre di allattare e metta in pericolo il bambino; ​​i poskim oggi spesso trovano soluzioni alternative), implicando per Taz dovremmo certamente astenerci dall'agire in un modo che possa allontanare qualcuno dall'osservanza.

    La risposta più completa mostra che l’analogia non è ferrea. La donna in questione si era trasferita in una città in cui la prostituzione legalizzata era dilagante e subiva pressioni affinché si unisse alle fila delle “lavoratrici del sesso”, come la gente oggi ama chiamarle. Un uomo l'aveva salvata dal tentativo iniziale, ma le autorità l'avevano ritrovata e la tentavano con promesse di sostegno finanziario che non avrebbe potuto eguagliare o ottenere in nessun altro modo. Aveva suggerito di sposare il suo salvatore, e lui era stato d'accordo, ma se ciò non fosse avvenuto in quel momento, avrebbe ceduto alle pressioni.

    Mi sembra che l'entusiasmo di Taz nell'aiutare i suoi compagni ebrei lo abbia portato a ignorare una differenza significativa. La coppia nella domanda di Mahari Mintz fino a quel momento aveva agito in modo esemplare ed era ansiosa di trovare il modo di continuare a rimanere entro i dettami della halakhah . Era preoccupato che potessero abbandonare la religione, è vero, ma avevano già conquistato la sua simpatia a causa delle loro precedenti dimostrazioni di impegno e dedizione.

    A favore di Nidui, dove necessario

    Se pensiamo in questi termini, anche l’ebreo che si vendette a un idolo si adatta al caso nidui meno bene di quanto Taz dia per scontato. È vero, l'ebreo ha gestito male la pressione finanziaria che gravava su di lui, e noi lo chiamiamo retoricamente diventare sacerdote di un potere diverso da Dio. In realtà, però, l’ebreo ha aderito solo a compiti umili che non costituiscono in alcun modo un culto. Il fatto che la Torah ci dica di riscattare questo ebreo affronta una questione diversa rispetto a quando un ebreo si fa beffe della halakhah o dei tribunali, come nel caso nidui .

    Penso che Peri Megadim sia d'accordo con me (quindi ho capito bene, il che è carino), anche se registra un'altra distinzione. Dice che tutte le prove di Taz possono essere confutate, perché qui si tratta di un tribunale che mette l'ebreo in nidui , e senza di esso l'intero sistema legale ebraico cadrebbe in disuso (come è troppo vicino al vero oggi, quando i tribunali e le comunità hanno potere solo su coloro che vi si sottomettono volontariamente).

    Arukh Ha-Shulhan dice che "c'è qualcuno che è andato avanti a lungo con le prove per contestare l'idea di Rema", poi dice che molti importanti studiosi della Torah erano d'accordo con Rema. Aggiunge la cautela che il tribunale dovrebbe essere matun , moderato, nell'utilizzare la misura disciplinare, e se il tribunale stesso o la comunità fossero messi a rischio mettendo al bando un ebreo (come quando lui/lei è politicamente ben collegato e può vendicarsi), il tribunale non ne ha bisogno. L'elemento cruciale è l'intenzione, che agiscano le-shem Shamayim , per onorare il Nome di Dio resistendo alla cattiva condotta e all'abrogazione dell'osservanza.

    Nidui separa l'ebreo dalla comunità, per richiamare l'attenzione sulla sua scelta di non osservanza. È limitato, ma può crescere ed è un modo fondamentale per la comunità di esprimere la propria preoccupazione e disapprovazione per le azioni di un altro ebreo.


    Da Torahmeanings.com
  10. .
    Sto cercando i miei fratelli

    Genesi 37,16


    La Parashà ci presenta le vicende della contesa fra i figli del patriarca Giacobbe; ci racconta come le rivendicazioni di superiorità manifestate da Yosef (Giuseppe) nei confronti dei fratelli, lo sfoggio della speciale tunica donatagli dal padre quale segno di predilezione, i sogni e la narrazione che ne faceva suscitarono rancore e infine odio dei fratelli, con l’esito di portare alla vendetta, solo l’estremo scrupolo da parte di Ruben, prima, poi di Yehudà (Giuda), evitò finisse in tragedia. La premessa del drammatico evento in cui Yosef viene venduto quale schiavo in Egitto, era stata la richiesta di Giacobbe a Yosef di recarsi dai fratelli, informarsi se stavano bene e recargli loro notizie; il messaggio che Giacobbe affida al figlio e il successivo impegno di Yosef nel cercare di svolgere il compito affidatogli dal padre, ci dicono qualcosa di molto importante, che va al di là dello specifico episodio. Giacobbe dice a Yosef: “Va e vedi – et shelom akheha”, cioè, “cerca lo shalom dei tuoi fratelli”; il senso più profondo nelle parole di Giacobbe a Yosef era l’invito a ricercare e riscoprire nei fratelli la loro “shelemut”, le cose complete, buone e positive, piuttosto che indagare sulle loro mancanze e sui loro difetti. Yosef cercherà di mettere in atto il compito e dirà, quasi disperato, quando è smarrito nella loro ricerca “et akhai anokhì mevakkesh” – “sto cercando i miei fratelli”. Il primo incontro con i fratelli avrà l’esito drammatico di portarlo schiavo in Egitto, ma molti anni dopo questa ricerca giungerà a compimento e tutti i figli di Giacobbe avranno modo di riscoprirsi fratelli. Da questa riscoperta dei legami di fraternità scaturisce il popolo ebraico. Le parole del patriarca Giacobbe sono rivolte a ciascuno di noi: dobbiamo cercare di riconoscere le qualità e le cose positive dei nostri fratelli, piuttosto che insistere nei loro difetti e rinsaldare in questo modo i legami tra tutti i figli del popolo ebraico. L’impegno che Yosef profuse nell’adempiere alla richiesta del padre, ci dice che, quali che siano le difficoltà, mai smettere di cercare i nostri fratelli.

    Shabbat Shalom e Chanukkà Sameach!

    Rav Giuseppe Momigliano, Rabbino Capo Comunità Ebraica di Genova

    Da ucei.it
  11. .
    Fino a quando non giungerò dal mio signore a Se'ir

    Genesi 33,14



    Il dialogo tra Giacobbe ed Esaù, i due fratelli/popoli, è emblematico. Esaù chiede una riunificazione che Giacobbe, al momento, non sente di accettare e che vuole rimandare ad altri tempi. Giacobbe, con molta delicatezza e rispetto, afferma che è lui il problema; ha un’andatura più lenta, è “zoppicante” e non può/vuole accelerare il passo per non rischiare di perdere per strada nessun componente della sua famiglia. Tuttavia, Giacobbe promette che giungerà il momento in cui “arriverò dal mio signore a Se‘ir” e potremo ricongiungere le vie che abbiamo separato, ma non adesso. Per capire il senso delle parole di Giacobbe, ci aiuta il profeta Obadyà, il cui unico capitolo biblico costituisce la haftarà di questa settimana “Saliranno i liberatori sul monte di Sion per fare giustizia dei figli di Esaù e al Signore apparterrà il regno” (1,21). L’espressione di Giacobbe “arriverò dal mio Signore a Se‘ir”, non significa presentarsi all’incontro con il fratello (che è principe di Se’ir), ma comparire a giudizio davanti al Signore che – in un futuro a venire – giudicherà tutti i popoli. Quello, che è tempo di gheullà-redenzione, sarà il momento giusto per la riunificazione tra i popoli/fratelli. Nel frattempo, grazie alla Torah e alle mitzvot, possiamo proteggerci dagli “abbracci” e dai “baci” di Esaù, che rappresentano, da sempre, l’ostacolo più grande al “nostro percorso” per arrivare a quel giorno.

    Shabbat Shalom

    Rav Adolfo Aharon Locci

    Rabbino Capo Comunità Ebraica di Padova



    Da ucei.it
  12. .
    In questo luogo c'è proprio il signore , e io non lo sapevo

    Genesi 28,16


    La Parashà di questa settimana contiene tra i vari argomenti, il sogno di Giacobbe. Dopo aver lasciato la casa paterna, si dirige verso Charan. Durante il viaggio si ferma in un “Luogo”, Makom. Questo termine, “Makom”, è uno dei nomi di Hashem. Tuttavia questo luogo sarà quello dove in seguito verrà costruito il Beit HaMikdash, il sacro Tempio di Salomone: il luogo della più grande connessione dell’uomo con Hashem. Non c’è nessun luogo su tutta la Terra che abbia un significato così profondo e che presto B.H. sarà ricostruito.

    Shabbat Shalom

    Rav Cesare Moscati

    Rabbino Capo Comunità Ebraica di Napoli

    Da ucei.it
  13. .
    Genesi 27,34

    Padre mio, benedici anche me


    L’episodio centrale della parashà di Toledòt è la sottrazione con inganno da parte di Yaaqòv (Giacobbe ndr), su indicazione della madre Rivkà (Rebecca ndr), della benedizione che il padre Yitzchàq aveva riservato per Esàw. Il comportamento di madre e figlio in questo caso lasciano evidentemente interdetti e aprono diversi quesiti. Come poteva un “Ish tam”, una persona semplice, integra come Yaaqòv ingannare così suo padre? Per quale ragione Yitzchàq ritiene Esàw degno della benedizione? Ma forse, sopra ogni cosa, come ha potuto Rivkà macchinare un piano così preciso ed efficace volto ad ingannare il marito? Esistono diverse letture che giustificano Rivkà, in virtù del fatto che era evidente che Esàw non ara adatto a portare avanti l’eredità spirituale dei genitori e dei nonni paterni (Avrahàm e Sarà). Inoltre lei aveva avuto la profezia weràv ya’avòd tza’ir che in genere viene tradotta come il maggiore servirà il minore. Tuttavia non tutti i maestri la vedono così “semplice”. Radàq nota l’assenza della particella “et” del complemento oggetto, che permetterebbe di leggere la frase all’inverso, ossia che il piccolo servirà il grande. Il Natziv di Volodzhyn affronta il tema in modo più profondo fino a ravvisare un problema di comunicazione tra Yitzchàq e Rivkà, per cui quest’ultima si sente in dovere di intervenire senza farne menzione col marito. Questo ha delle conseguenze importanti nella vita futura di Yaaqòv causandogli, da quel momento, una sequenza di situazioni in cui lui stesso verrà ingannato, anche dalle persone a lui più care. Rav Jonathan Sacks deduce da questo che questo racconto vuole insegnarci l’esperienza negativa che si ha quando la comunicazione non è limpida, anche se animati dalle migliori intenzioni.

    Shabbat Shalom

    Gad Fernando Piperno

    Rabbino Capo Comunità Ebraica di Firenze

    Da ucei.it

    Edited by leviticus - 2/4/2024, 12:55
  14. .
    FEGATO ( ):

    Di: Solomon Schechter , Ludwig Blau , M. Seligsohn


    Organo ghiandolare situato, nell'uomo, a destra, sotto il diaframma e sopra lo stomaco. In sei passi della Bibbia in cui viene menzionato il fegato l'espressione si incontra in riferimento alla parte dell'organo che doveva essere sacrificata come pezzo grasso (Es.xxix. 13, 22, et passim ). Il significato di questa espressione non è stato stabilito con successo. Sia Onḳelos che lo pseudo-Jonathan lo traducono , o nella forma ebraica , che si incontra nel Talmud. La Versione Autorizzata, seguendo Girolamo, lo rende "la camicia sopra il fegato"; e sembra che Rashi abbia dato la stessa interpretazione. Ma la Settanta lo rende con "lobo del fegato", il che dimostra che il pezzo sacrificato era una parte del fegato stesso. L'interpretazione "caul" o "lembo attorno al fegato" sembra derivare dall'aramaico , inteso nel senso di "circondare". Ma Bochart ("Hierozoicon", i. 562, Leipsic, 1793-96) ha dimostrato l'errore di tale interpretazione, riferendosi alla resa araba di Saadia "za'idah" ​​(= "escrescente"). Kohut ("Aruch Completum", sv e ) richiama l'attenzione su un passaggio del Tamid (31a) in cui si parla del "dito del fegato" (vedi Rashi ad loc. ). Kohut suppone quindi che l'aramaico sia l'equivalente dell'arabo "khanṣar" = "mignolo". La sua supposizione è confermata da Isaac ibn Ghayyat, che cita Hai Gaon (Dukes, in "Orient, Lit." ix. 537) secondo cui l'espressione viene dall'arabo e che il fegato è composto di pezzi simili a dita. Secondo Naḥmanides (Responsa, n. 162), se questa parte del fegato è perforata, la carne dell'animale può essere mangiata (vedi anche Dillmann su Lev. iii. 4; Driver e White, "Leviticus", p. 65 ; Nowack, "Archaologie," i. 228; comp. Caul ; Fat ).

    Né l'uomo né l'animale possono vivere senza fegato ('Ar. 20a). Se a un animale manca il fegato, la sua carne non può essere mangiata (Ḥul. 42a). Se dunque qualcuno consacra al santuario il valore della sua testa o del suo fegato, dovrà pagare il valore di tutta la sua persona ('Ar. 20a; BM 114a). Sui disturbi al fegato vedere Maimonide, "Yad", Sheḥiṭah, vi. 1, 8, 9; vii. 4, 19, 21; viii. 16.

    Il fegato è la sede della vita. Gli arcieri trafissero il fegato con le loro frecce (Prov. vii. 23), causandone rapidamente la morte. Johanan (m. 279) dice: "Lo colpì sotto la quinta costola" (II Sam. ii. 23), cioè nella quinta partizione, dove fegato e fiele sono collegati ( Sanh. 49 , sopra). Johanan non intende implicare che il fegato e la bile siano nel petto, come deduce Ebstein ("Medicin des NT und des Talmuds", ii. 129), ma semplicemente che il fegato e la bile erano feriti. La tradizione (I Re xxii. 34; II Cron. xviii. 33) secondo cui la freccia colpì il re tra le costole ("debaḳim") si riferisce similmente alla quinta partizione (vedi anche Sanh. 63b ; Kohut, "Aruch Completum", iv.182b). Un tannaita vissuto a Roma intorno al 150 raccomanda la membrana del fegato di un cane pazzo come rimedio contro l'idrofobia, e anche Galeno approva questo rimedio; ma gli insegnanti palestinesi lo proibirono perché la sua efficacia non era stata dimostrata (Yoma viii. 5; 84a, b; vedi Blau, "Altjüdische Zauberwesen", pp. 80 e segg. ). Tobia vi. 8, VIII. 2, tuttavia, mostra che la fumigazione con fegati di pesce era considerata un mezzo per esorcizzare gli spiriti maligni in Palestina.

    Sulle funzioni del fegato c'è un solo passaggio nella Bibbia, cioè Lam. ii. 11: «I miei occhi si struggono per le lacrime, le mie viscere sono turbate, il mio fegato si riversa sulla terra, per la distruzione delle figlie del mio popolo». Sulle funzioni dei vari organi del corpo umano si trova nel Talmud questa osservazione: "Il fegato provoca l'ira; il fiele vi getta dentro una goccia e lo calma" ( Ber. 61 , sopra).

    Il significato augurale del fegato, l'epatoscopia, è menzionato solo una volta nella Bibbia, e quindi come usanza straniera. Ezechiele (XXI, 21) dice di Nabucodonosor: "Poiché il re di Babilonia stava al bivio, all'inizio delle due vie, per usare la divinazione: faceva brillare le sue frecce, consultava le immagini, esaminava il fegato" (cfrEbreo. Encic.iv. 624a, sv Divinazione ). Levi (III sec.) rimarca questo brano: "come l'Arabo che scanna una pecora e ne esamina il fegato" (Eccl. R. xii. 7).


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    da JewishEncyclopedia.com

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    per articolo originale con parole in ebraico fra parentesi qui mancanti
  15. .
    Architettura


    L'archeologia ha fornito informazioni sulle pratiche architettoniche "israelite" dal X al VI secolo aC e sugli stili di costruzione e decorazione "ebraici" del tardo periodo ellenistico (I secolo aC) e successivi.

    Nell'antichità
    La progettazione di abitazioni isolate può essere fatta risalire alla tarda preistoria. Le condizioni geografiche e topografiche naturali offrivano ai primi costruttori una scelta di materiali: argilla per i mattoni, pietra per i muri e legno per i soffitti. Le strutture – circolari, curvilinee e rettangolari a pianta – possono essere fatte risalire ai periodi natufiano e pre-ceramico del Neolitico. I pali di legno sostenevano i soffitti di paglia. Negli ambienti privi di alberi, i soffitti erano costruiti con pietra a sbalzo. Segni di pianificazione di villaggi/città con architettura complessa, reti stradali, sistemi di drenaggio e di raccolta dell'acqua erano già evidenti in alcuni insediamenti neolitici, in particolare a PPNA Jericho e a PNA Sha'ar Hagolan. La sofisticata pianificazione architettonica, tuttavia, non ha preceduto la prima età del bronzo. Di questo periodo sono note strutture complesse utilizzate come abitazioni (di tipo ampio o lungo), palazzi, edifici amministrativi e templi. Sebbene le pietre lavorate appaiano per la prima volta come supporti per pali di legno nei templi di Megiddo dell'età EB, la maggior parte dei muri di questo periodo erano costruiti con pietre da campo o mattoni di fango ricoperti di intonaco di argilla e calce. Gli insediamenti erano circondati da fortificazioni, intervallate da torri e porte a camera, e venivano costruiti su fondamenta di macerie lungo un percorso topografico predeterminato.

    I sistemi di fortificazione della media età del bronzo erano imprese ingegneristiche estremamente complesse e furono apparentemente costruiti come risposta allo sviluppo di sofisticate attrezzature militari di indebolimento. L'arco era conosciuto come costruzione monumentale già nella media età del bronzo. A Tel Dan è stata portata alla luce una porta della città con il portale esterno conservato come un vero arco con conci di mattoni di fango. Ortostati rivestiti sono noti da un certo numero di porte cittadine risalenti alla media età del bronzo, ad esempio a Ghezer e Sichem, e più lontano nei siti MB in Libano e Siria.

    L'efficiente pianificazione architettonica delle città e dei paesi dell'età del ferro della II è diventata evidente come risultato degli estesi scavi di numerosi siti israeliti, ad esempio a Tell Beit Mirsim, Tell el-Nasbeh e Tell el-Farah (nord). Caratteristici di tali siti sono gli edifici pubblici, le abitazioni di varie dimensioni e planimetrie, i sistemi idrici e altri elementi sotterranei . Non è sopravvissuto nulla dei due edifici principali costruiti da Salomone a Gerusalemme : il Tempio e la "Casa della Foresta del Libano", entrambi descritti nel Libro dei Re. La descrizione di questi edifici suggerisce che fossero grandi e avessero pareti costruite con conci e con travi di cedro che richiedevano molte colonne interne per il sostegno. Si ritiene che il Tempio fosse una struttura tripartita costruita su un asse longitudinale e fossero utilizzate travi di cedro importate; la Bibbia racconta come Hiram, re di Tiro, prestò a Salomone i suoi costruttori. Le unità immobiliari quadrilocali o trilocali erano tipiche delle abitazioni di questo periodo. Pietre rivestite costituite da conci levigati o sgrossati marginalmente sono note dell'età del Ferro II, principalmente dal X secolo aC, talvolta disposte in corsi alternati di testate e barelle per garantirne la stabilità. A volte venivano aggiunte travi di legno nelle pareti orizzontalmente tra i corsi di pietre, per fornire elasticità e per ridurre al minimo i danni causati dai terremoti. Le pietre erano rifinite con scalpelli. L'uso del bordo a scalpello dentato è noto solo dal periodo persiano/ellenistico in poi. Le finestre erano occasionalmente delimitate da una balaustra dentellata (ad esempio, Ramat Rahel) e il capitello proto-eolico – decorato con un triangolo fiancheggiato da volute spirali – era utilizzato negli stipiti delle porte di edifici importanti (ad esempio, Gerusalemme, Samaria, Megiddo). La maggior parte delle case private, tuttavia, continuarono ad essere costruite con muri di macerie con muri di fango levigato, rivestiti con intonaco di calce. Durante gli scavi di strutture del periodo persiano a Tell Jemmeh è stata scoperta una complessa costruzione in mattoni di fango, con volte a botte spioventi nelle residenze e nei magazzini.

    A partire dal periodo ellenistico e attraverso il periodo romano, la progettazione architettonica divenne molto più espansiva all'interno delle città, mentre i progetti edilizi nelle campagne rurali rimasero modesti e ricalcarono tecniche di costruzione utilizzate nei periodi precedenti. Vari tipi di tecniche di costruzione con malta e mattoni furono introdotte nella regione in epoca romana. Materiali importati, come il marmo, furono utilizzati nella costruzione di palazzi e grandi edifici, soprattutto dal tempo di Erode il Grande alla fine del I secolo a.C. Le conquiste ingegneristiche dei romani riguardo alla costruzione di strade, ponti e acquedotti , ha avuto il suo effetto anche sulla regione. Furono costruiti nuovi progetti per il tempo libero: terme, teatri, anfiteatri.

    È difficile definire l'architettura ebraica prima del periodo romano, ma dalla fine del I secolo a.C. in poi si può evidenziare l'esistenza di un'architettura tombale con decorazioni interne (ad esempio, le tombe di Akeldama a Gerusalemme), monumenti tombali indipendenti (ad esempio, le tombe di Assalonne e Zaccaria nella valle del Cedron a Gerusalemme) ed edifici pubblici identificati come sinagoghe (ad esempio, Masada, Herodium, Gamla, Gerico e Modi'in), che furono senza dubbio creati da artigiani e architetti ebrei. Il Tempio e la spianata su cui fu costruito furono una delle realizzazioni architettoniche dell'epoca di Erode il Grande (37–4 aEV). Di questo periodo sono note anche imponenti fortificazioni. Durante i periodi tardo romano e bizantino, l'architettura ebraica continuò ad essere esemplificata da varie forme di sinagoghe (ad esempio, Chorazin, Cafarnao, Beth Alpha, ecc.) e tombe (ad esempio, Beth Shearim).

    [Shimon Gibson (2a ed .)]

    Periodo moderno
    Nei tempi moderni c’è abbondanza di architetti ebrei ma – tranne forse in una certa misura in Israele – nessuna architettura ebraica di cui parlare. Gli uomini che progettarono le sinagoghe per le comunità europee potrebbero essere stati coinvolti dai loro correligionari anche per l’architettura domestica. I nomi dei magnati ebrei medievali sono spesso associati alle abitazioni in pietra, alcune delle quali sono ancora in piedi. C’è infatti motivo di credere che in Inghilterra – forse per ragioni di sicurezza – siano stati gli ebrei i pionieri della costruzione domestica in pietra, una moda da loro introdotta dal continente. Nonostante questi casi isolati, tuttavia, è chiaro che gli ebrei giocarono poco o nessun ruolo nell’architettura generale prima dell’età dell’emancipazione. Fu solo nel XIX secolo che gli architetti ebrei iniziarono ad emergere nella pratica generale e ad ottenere incarichi civili, monumentali o addirittura ecclesiastici in molti paesi d'Europa senza alcuna apparente discriminazione. Curiosamente, due dei primi architetti ebrei ad essersi distinti nel campo erano entrambi ricchi sefarditi inglesi: il convertito al cristianesimo, George *Basevi , e David *Mocatta . I progetti di quest'ultimo per una serie di stazioni ferroviarie negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento ebbero un'influenza duratura. La stessa tradizione dell'"architetto gentiluomo" fu rappresentata un po' più tardi dal tedesco Georg Itzig, che progettò il principesco Palazzo Revoltella a Trieste, e nello stesso stile rinascimentale italiano , la Deutsche Reichsbank a Berlino (1879). Verso la fine del secolo molte altre filiali della Reichsbank, progettate con la sfarzosità caratteristica dell'architettura tedesca di questo periodo, furono costruite da E. Jacobsthal (1839–1902). In Austria un pioniere nell'architettura teatrale fu Oscar *Strnad , e in Germania Oskar *Kaufmann lavorò nello stesso campo, in particolare nel suo Stadttheater a Bremerhaven (1909) e nel suo Komoedie Theater a Berlino (1924). Come in altri ambiti della cultura moderna, gli ebrei furono tra i primi a staccarsi dalle forme convenzionali dell’architettura. In Germania un pioniere fu Alfred Messel, il cui grande magazzino Wertheim a Berlino (1897), una notevole combinazione di pietra, acciaio e vetro, è generalmente considerato una delle influenze più importanti sull’architettura moderna, nonostante il suo romanticismo neogotico. Un altro maestro moderno è stato Eric *Mendelsohn , i cui edifici espressionistici, come la sua Torre Einstein a Potsdam (1919-20), hanno un aspetto altamente scultoreo. All'inizio del secolo Budapest era una città vibrante di vita. Nel febbrile boom edilizio dell’epoca, gli architetti ebrei giocarono un ruolo considerevole. Venne alla ribalta un nuovo stile, la Secessione (Art Nouveau, Jugendstil), che in Ungheria unì motivi folcloristici e persino orientali con stili storicizzanti. Al centro della nuova architettura c'era l'architetto non ebreo Ödön Lechner, e molti dei suoi aiutanti e collaboratori erano ebrei o di origine ebraica. Le sue opere, e quelle di altri architetti dell'epoca, non solo furono trascurate, ma addirittura disapprovate nei decenni successivi, per poi essere restaurate negli anni '70 e '80. Attualmente sono siti molto apprezzati della capitale ungherese. Altrove in Europa, tra i più influenti architetti francesi moderni fu Alexandre Persitz (1910–). Fu redattore della rivista Architecture d'aujourd'hui e figura di spicco nella ricostruzione della città di Le Havre dopo la seconda guerra mondiale, nonché architetto di numerose sinagoghe. Altri influenti architetti francesi contemporanei includono Emmanuel Pontrémoli, che insegnò all'Ecole des Beaux Arts di Parigi, Georges Goldberg, Georges Gumpel e Claude *Meyer-Lévy . In Italia sono da ricordare Manfredo d'Urbino e Bruno Zevi, che oltre ad essere un architetto praticante e scrittore in materia fu segretario generale dell'Istituto Italiano di Urbanistica; Julien Flegenheimer (1880–1938), fratello dello scrittore Edmund *Fleg , fu l'architetto del Palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra. Uno dei progetti di edilizia popolare più interessanti e di maggior successo, lo Spaarndammerplantsoen ad Amsterdam, è stato progettato dall'olandese Michel de *Klerk . In effetti, è forse sintomatico dell’intenso interesse ebraico per il benessere e l’attivismo sociale il fatto che gli architetti ebrei tendano ad essere associati a tali sviluppi pubblici in numero sproporzionato. Uno dei più famosi è il Karl Marx Hof di Vienna, costruito nel 1930 dalla collaborazione di Frank e Wlach. In Russia, in particolare dopo la rivoluzione bolscevica, numerosi architetti ebrei hanno avuto importanti carriere pubbliche. Uno dei primi, JC Gewuertz, fu un leader dell'avanguardia anche in epoca prerivoluzionaria. Negli anni '20 si guadagnò grande stima e divenne preside della scuola di architettura dell'Accademia. L'architetto AI Gegello (1891–1965) era ben noto per la sua Casa della Cultura a Leningrado, considerata la migliore acustica di qualsiasi teatro in Russia; Il suo Botkin Memorial Hospital for Infectious Diseases è una protesta sorprendente contro l’eccessiva centralizzazione e la disumanizzazione della medicina moderna. La fabbrica di vetro "Belyi Bychek" di NA Trotski, progettata negli anni '20, è un'integrazione audace e magistrale di diversi elementi. Il suo progetto per il Palazzo dei Soviet a Leningrado del 1937, tuttavia, mostra un neoclassicismo senza vita che può forse essere attribuito alle circostanze. Un paese del Nuovo Mondo in cui gli ebrei sono stati particolarmente attivi nel campo dell’architettura è il Brasile. Un precursore dell'architettura moderna in Brasile fu Gregori Warchavchik (1896–1972), nato in Russia, che costruì la prima casa moderna del paese a San Paolo nel 1927 e supervisionò la mostra di architettura brasiliana nell'Esposizione della casa moderna che organizzò a 1930. Rino Levi (1901–1965) è stato tra i più prolifici architetti brasiliani, lavorando nello stile dei grattacieli americani. In questo fu rivaleggiato da Henrique Mindlin (1911–1971), autore di Modern Architecture in Brazil (1956), il cui lavoro ha contribuito a cambiare lo skyline di Rio de Janeiro. Uno dei collaboratori alla progettazione della nuova capitale brasiliana, Brasilia, nonché progettista delle sinagoghe più moderne del Paese, fu Elias Kaufman (1928–). Il versatile Roberto Burle Marx ha utilizzato il lussureggiante paesaggio brasiliano come parte integrante della sua architettura. Il record di illustri architetti ebrei negli Stati Uniti è lungo e impressionante. Il fondatore della tradizione fu Leopold *Eidlitz , di origine tedesca , una figura importante del movimento gotico, che iniziò la sua carriera in America poco dopo la metà del XIX secolo . Costruì, oltre a numerose chiese – la sua Christ Church Cathedral a St. Louis è stata definita "la chiesa più religiosa d'America" ​​– l'ex Tempio Emanu-El, uno degli edifici più importanti del passato New York. Dankmar *Adler , insieme al non ebreo Louis Sullivan, fu in gran parte responsabile dell'evoluzione del grattacielo americano. Albert *Kahn , creatore dello stabilimento automobilistico Ford fuori Detroit, è stato descritto come l'architetto industriale più influente dei tempi moderni. Altri importanti nomi ebrei nell'architettura americana del XX secolo sono Louis I. *Kahn , che è stato definito un importante creatore di forme; Max *Abramovitz , progettista della Philharmonic Hall di New York; Victor Gruen (morto nel 1980), che si può dire abbia inventato il centro commerciale suburbano; Albert Mayer (morto nel 1981) e Percival *Goodman , entrambi ben noti come urbanisti e architetti; Isadore Rosenfield, leader nella progettazione ospedaliera funzionale; e Gordon *Bunalbero . Ely Jacques *Kahn , Richard J. *Neutra , Paul Friedberg, Lawrence Halprin, Bertrand Goldberg, Rudolph Schindler, Arnold W. *Brunner , Peter D. *Eisenman , Frank O. *Gehry , Robert AM *Stern , Daniel *Liebeskind , Stanley *Tigerman , Richard *Meier e James *Polshek .

    Nella moderna Ereẓ Israel
    L’architettura delle città e degli insediamenti ebraici nella moderna Ereẓ Israel era condizionata, nel complesso, più dalle urgenti esigenze abitative delle varie aliyyot che da qualsiasi altra considerazione. L'aspetto estetico rifletteva per lo più le tendenze prevalenti nei paesi di origine degli architetti.

    Durante il periodo ottomano nel paese furono costruite due grandi categorie di edifici: edifici di villaggi arabi, costruiti secondo il modello tradizionale, senza architetti, utilizzando materiali da costruzione trovati nelle vicinanze e in particolare armonia con il terreno; e l'architettura cittadina, tipicamente mediterranea, basata sull'italiano meridionale mescolato con stili arabi tradizionali. Inoltre, c'erano edifici eretti dal governo turco, che impiegava architetti tedeschi. Erano di alto livello, in uno stile piacevole e sobrio. Gli edifici eretti dalla Jewish Colonization Association , in stile francese, erano attraenti e meno pretenziosi.

    Dopo la prima guerra mondiale, l’immigrazione ebraica su larga scala provocò una grave carenza di alloggi e si verificò un’ondata di costruzioni senza precedenti nei paesi orientali. Il boom edilizio diede piena occupazione agli architetti e agli ingegneri allora presenti nel paese, ma determinò l'ingresso di numerosi tecnici autodidatti nel campo dell'edilizia. Molti degli edifici dell’epoca erano mal progettati. Nello stesso periodo, ma su un livello completamente diverso, si verificò il tentativo da parte di architetti creativi di realizzare uno stile orientale moderno.

    Il processo di introduzione di uno stile e di lavoro per la sua formazione fu lento e durò molti anni. Gli esperimenti iniziati da Alexander *Baerwald e dai suoi allievi anche prima della prima guerra mondiale (in particolare gli edifici della Scuola Reali e del Technion ad Haifa, 1912) non furono continuati. Degno di nota è anche il lavoro di Ze'ev Berlin a Tel Aviv , ma nessuno ha continuato il suo lavoro. Gli architetti del governo britannico tentarono anche di inventare uno stile coloniale originale, tra cui spiccano Clifford Holiday, influenzato dall'Europa, e A. St. B. Harrison, il romanticista, le cui piccole stazioni di polizia sono rimaste attraenti nel corso degli anni. Infine ci furono gli architetti delle istituzioni ebraiche: F. Kornberg, che progettò il campus universitario sul Monte Scopus; Eric Mendelsohn, che progettò l' Ospedale Hadassah sulla stessa collina; Leopold *Krakauer e Richard *Kaufmann che hanno entrambi dato un contributo particolarmente prezioso all'architettura israeliana; e Yoḥanan *Ratner , che progettò l' edificio dell'agenzia ebraica a Gerusalemme e che si dedicò alla formazione di architetti al *Technion .

    Durante gli anni '30 gli architetti dell'Europa occidentale divennero importanti in Palestina . Avevano studiato, e in alcuni casi lavorato, con grandi maestri come Gropius e Le Corbusier. Furono eretti edifici il cui stile architettonico è indiscutibilmente equilibrato. Questi includono progetti di alloggi per lavoratori urbani di Aryeh *Sharon e J. Neufeld, e gli edifici di Z. *Rechter , Sh. Misteczkin, D. Karmi e G. Shani. D'altra parte, a differenza degli "orientalisti", ci furono architetti europei che portarono con sé concetti europei di architettura e non fecero alcun tentativo di adattarli alla topografia o al clima locale o di tradurli in termini locali.

    La creazione dello Stato di Israele nel 1948 portò all’immigrazione di massa e alla necessità di alloggi di massa. All’inizio degli anni Cinquanta migliaia di persone vivevano in capanne di lamiera, prefabbricati di legno e tende. Gli alloggi permanenti dovevano essere costruiti in modo rapido ed economico. Così il famoso " shikkun " – complesso residenziale costruito rapidamente – divenne una caratteristica di molte parti del paese. Il criterio era la quantità, mentre veniva trascurato l'aspetto qualitativo, per quanto riguarda la costruzione, i materiali, l'efficienza esecutiva, nonché gli aspetti architettonici ed estetici. Gli stili architettonici in Israele includono lo stile Le Corbusier, il brasiliano e il giapponese, il brutalismo e il plasticismo. Ci sono anche tentativi di adattare idee straniere alle condizioni specifiche di Israele, in particolare in termini di protezione dal sole, e di trarre ispirazione dall'antica architettura orientale. Qua e là si possono trovare motivi regionali, come l'uso di un guscio di cemento a volta o la miscela di cemento e pietra.

    In testa alla lista degli edifici degni di nota in Israele ci sono gli edifici dell'Università Ebraica di Gerusalemme, dell'Università di Tel Aviv e del nuovo campus Technion di Haifa, nonché dell'Università di Haifa (architetto: Oscar Niemeyer). L'Istituto Weizmann a Reḥovot ha alcuni buoni edifici per l'insegnamento e la ricerca; l'edificio dell'Hebrew Union College a Gerusalemme (architetto: Heinz *Rau ) è un'altra struttura eccellente. Sale importanti che sono state costruite nelle principali città includono l'Auditorium Mann a Tel Aviv (architetti: Rechter-Karmi-Rechter), Binyanei ha-Ummah a Gerusalemme (architetto: Ze'ev Rechter) e il Teatro di Haifa (architetto: Shelomo Gilead A Gerusalemme spiccano il complesso del Museo d'Israele (architetti: Mansfeld-Gad), il palazzo della Knesset (architetti: Y. Klarwein e D. Karmi) e il nuovo edificio della Corte Suprema (architetti: R. Carmi e A. Carmi Melamed) Anche l’architettura abitativa è migliorata notevolmente, i progetti ben costruiti lo sono si trova, in particolare, nel quartiere di Ramat Aviv, nel nord di Tel Aviv (architetti-progettisti: J. Perlstein-R. Banat).

    BIBLIOGRAFIA:

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    Fonte: Enciclopedia Judaica . © 2008 Il Gruppo Gale.
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