Ebrei e Israele

Posts written by Biribiri

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    Un anno per la salute
    Pubblicato in Attualità il ‍‍18/09/2020 - 29 אלול 5780
    In ogni tefillà che recitiamo dalla prima sera di Rosh ha shanà, fino a Yom Kippur, nelle prime tre benedizioni della ‘amidà aggiungiamo alcune frasi rispetto alla consuetudine giornaliera del resto dell’anno. Nella prima benedizione, chiamata “birkat avot” (A’ sefatai tiftach ecc.) aggiungiamo la frase che recita le seguenti parole: “Zokhrenu le chaiim-ricordaci per la vita oh Re che gradisci la vita, e iscrivici nel libro della vita, in Tua grazia oh D-o vivente”.
    Nella seconda benedizione, chiamata “ghevurot – potenza divina” (mechalkel chaiim be chesed ecc.), aggiungiamo: “Mi khamokha av ha rachamim – chi è come Te oh Padre misericordioso, ricorda il tuo Creato con bontà, Tu che fai morire e rivivere”.
    Viene di chiederci quale sia il motivo di queste aggiunte e se c’è: qual è il nesso fra loro?
    Analizziamo la prima frase. Essa è la richiesta di un qualcosa cui l’essere umano ha particolarmente cara, come nient’altra cosa: la vita.
    Per ogni uomo è la cosa più cara; se non c’è la garanzia della vita, non si può fare null’altro.
    Attenzione, non la vita a tutti i costi!
    A proposito di ciò, in un’altra aggiunta verso la fine dell’amidà, recitiamo: “Ukhtov le chaiim tovim – E iscrivici nel libro della vita buona”!
    Questo è ciò che chiediamo all’Eterno; una vita piena di bontà, di benessere, ma soprattutto, piena di umana dignità.
    Mai come per quest’anno dovremmo impegnarci a recitare con tutte le nostre forze queste richieste al Signore Iddio.
    Una vita piena di pace, di soddisfazioni – morali e materiali -; una vita piena di benessere, ma soprattutto piena di salute. Abbiamo sofferto molto in quest’anno in cui la pandemia ha colpito l’intero pianeta, portando, più che una guerra, morti e sofferenze.
    L’augurio che possiamo formularci è lo stesso che viene formulato in tutte le sinagoghe del mondo, all’inizio della preghiera di arvit:
    Tikhlé shanà ve kileloteha tachel shanà u virkoteha – Si concluda l’anno e le sue maledizioni, inizi l’anno e le sue benedizioni.
    Shanà tovà e soprattutto Metukkà

    Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna

    (18 settembre 2020)

    da moked.it
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    Periscopio – Mosaici e citazioni
    Pubblicato in Opinioni a confronto il ‍‍30/06/2021 - 20 תמוז 5781
    Nei miei interventi delle scorse settimane, affrontando la questione della possibile influenza esercitata su Dante da Immanuel Romano e dal monaco Pantaleone, ho esposto le ragioni che mi inducono a ritenere poco verosimile che il poeta abbia direttamente letto il testo di Romano e visionato il mosaico del Duomo di Otranto.
    Ciò detto, resta però da chiedersi se Alighieri, pur non avendo letto e visto le opere di Immanuel e di Pantaleone, ne abbia almeno sentito parlare. Il poema di Immanuel, come sappiamo, si chiama “L’Inferno e il Paradiso”, e la navata laterale di sinistra del Duomo di Otranto accoglie, anch’essa, la descrizione musiva dell’Inferno (luogo di dannazione) e del Paradiso (spazio di redenzione). Certamente Immanuel e Pantaleone non hanno inventato loro i due grandi spazi dell’oltretomba, ma sono i primi ad avere dato ad essi una così compiuta espressione artistica. Non sappiamo se Dante abbia sentito parlare del poema di Romano, ma certamente non può non avere avuto notizia del mosaico di Otranto che, come abbiamo già ricordato, era famosissimo, già prima di essere ultimato. È molto, molto probabile, perciò, che abbia avuto notizia di questa raffigurazione visiva, e che ciò gli abbia fatto balenare l’idea (chi sa, forse già da ragazzino) che l’Inferno e il Paradiso non sono solo due spazi dell’aldilà, ma possono anche essere oggetto di rappresentazione artistica.
    All’Inferno e al Paradiso di Pantaleone (e di Romano), com’è noto, Dante aggiunge il Purgatorio (che, fino a quel momento, come ha spiegato Le Goff, non era altro che una pallida ipotesi teologica, sorta vero la metà del XII secolo), e tale invenzione (che, senza Dante, sarebbe probabilmente stata accantonata), com’è noto, avrebbe avuto incalcolabili conseguenze sullo sviluppo della civiltà europea. Nel dare al poema (e a tutta la concezione dell’universo) un’impostazione ternaria, il poeta si collega a un antico e diffuso schema tripartito, che affonda le sue radici in molte civiltà indoeuropee (per fermarci solo all’antica Roma, ricordiamo le triadi Giove-Marte-Quirino e poi Giove-Minerva-Giunone), e di cui la Trinità cristiana non è che una delle tante manifestazioni. Pantaleone non è ancora pienamente dentro questo schema, in quanto vissuto in un’epoca – precedente all’invenzione dantesca del Purgatorio – nella quale lo schema tripartito aveva un astratto valore teologico (la Santissima Trinità), ma non era ancora mai stato utilizzato come modello descrittivo dell’aldilà.
    Ma è proprio Pantaleone, in quella che mio padre definì una “Divina Commedia figurata”, a porre a guardia dell’Inferno, esattamente come Dante, tre temibili fiere: un orso, un leone e una lupa (la cui descrizione e simbologia è magistralmente descritta dal Gianfreda). Dante, invece, com’è noto, trova, a sbarrargli la strada, tre animali in parte diversi: una lonza (“leggera e presta molto”: Inf. I. 32), un leone (“con la test’alta e con rabbiosa fame”: Inf. I. 47) e una lupa (“che di tutte brame/ sembiava carca nella sua magrezza”: Inf. I. 49-50): simboli di lussuria, superbia e avarizia? oppure di incontinenza, malizia, bestialità? o di superbia, invidia, avarizia? o, ancora, di Firenze, Francia e Curia romana? Le ipotesi fatte sono diverse, e non è il caso, in questa sede, di richiamarle: è lo stesso poeta, d’altronde, a mio avviso, che vuole lasciare il lettore libero di dare la sua interpretazione; se avesse voluto instradarlo, lo avrebbe fatto. Quel che è certo è che, a bloccare la strada verso l’aldilà, nel mosaico e nel poema, ci sono tre animali. È davvero difficile pensare a una mera coincidenza, anche se continuo a credere che sia poco probabile che Dante abbia ammirato con i suoi occhi la raffigurazione musiva (anche per il fatto che, di un suo eventuale viaggio in Puglia, non abbiamo alcuna notizia).
    È molto verosimile, invece. che al poeta sia stato riferito che, in un luogo remoto del profondo Sud, qualcuno aveva collocato, a guardia del mondo ultraterreno, tre fiere selvagge. E, chi sa, può darsi che gli sia stato detto, o abbia immaginato, che fossero proprio una lonza, un leone e una lupa (le raffigurazioni di Pantaleone, fra l’altro, non sono di univoca interpretazione). Ed entrambi, Pantaleone e Dante, possono avere tratto spunto, come suggerito da Gianfreda, dalle Lamentazioni di Geremia (5.6), ove Israele è perseguitato da tre bestie, un leone, un lupo e un pardo (secondo Girolamo, simboli dei tre imperi nemici, il babilonese, il medo-persiano e il macedone). Ma, se le fiere sono tre, tre devono anche essere gli spazi ultraterreni.
    In conclusione, la questione – di grande suggestione – dell’influenza di Pantaleone e di Immanuel su Dante resta ancora confinata, per lo più, nel terreno dell’ipotesi, della congettura e del dubbio.
    Quanto alla possibile ‘ebraicità’ del mosaico (ove compaiono i patriarchi di Israele e Alessandro Magno – figura esaltata da diversa letteratura ebraica, come simbolo del giusto sovrano universale -, ma non Gesù, Maria, gli apostoli e i santi), non posso non ringraziare Samuele Rocca, eccellente studioso e bravissimo collaboratore di questo giornale, il quale, avendo letto le mie righe su Pantaleone, ha avuto la cortesia di mandarmi questa affascinante citazione, attribuita a Rashì, ma, in realtà, proveniente da suo nipote, Rabbenu Tam, che l’ha inserita nel suo Sefer haYashar (Libro della rettitudine): Ki mi Bari tizè Torah u Davàr Hashèm mi Otranto (“da Bari è uscita la Torah, e la parola del Signore da Otranto”).
    Quando scriveva Tam, il mosaico era già stato realizzato. Può darsi che il riferimento fosse ad esso? Le mie scarse competenze mi impediscono di avanzare supposizioni in merito, ma mi piacerebbe se Samuele ci desse, pubblicamente, qualche sua idea in proposito. Ricordiamo che, all’epoca, a Trani (molto vicina a Bari e a Otranto) sorgeva una fiorente comunità ebraica (e di recente, com’è noto, si è assistito all’evento, più unico che raro, della restituzione al culto ebraico di un’antica sinagoga di Trani, poi trasformata in Chiesa).
    Quella voce, partita da Otranto, ha raggiunto Dante? Non lo sappiamo; certamente, raggiunge noi, e indica una strada che, a ritroso, ritengo valga la pena di percorrere.

    Francesco Lucrezi, storico

    da moked.it
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    Le parole di Nembròt
    Pubblicato in Opinioni a confronto il ‍‍16/11/2022 - 22 מרחשון 5783
    A proposito dell’approccio di Dante nei confronti della lingua ebraica, ci siamo soffermati sulle criptiche parole inserite nel XXXI Canto dell’Inferno, nella profonda e tenebrosa fossa che separa le dieci bolge dei traditori di chi non si fida dalle quattro zone dei traditori di chi si fida: Raphèl maì amècche zabì almi (67). A pronunciarle è Nembròt, il mostruoso gigante che avrebbe ideato la costruzione della torre di Babele, simbolo di superbia punito da Dio con la confusione delle lingue. E lo stesso Virgilio, come abbiamo ricordato, spiega che il senso della frase non può essere capito, dal momento che Nembròt continua, anche nell’Inferno, a scontare la punizione del suo peccato: egli non può comprendere nessuna lingua con cui ci si rivolge a lui, e il suo linguaggio non può essere capito da nessuno.
    Se, però, quelle parole non possono essere capite, ciò non vuol dire che non significhino nulla, ma solo che il loro senso non può essere compreso. Dante, quasi sette secoli prima che nascesse la semiotica – la scienza dei segni – già dà un esempio specifico, di alta suggestione poetica, della scissione tra significante e significato. E non a caso il grande Umberto Eco, uno dei massimi maestri del mondo di semiotica, ha fatto reiteratamente riferimento alla Commedia. Il segno, spiegò, è qualsiasi cosa che rimanda a un’altra cosa. È un segno l’impronta di un animale sulla terra, così come il poema sacro è un insieme di segni.
    L’esigenza che ogni parola abbia un senso preciso (linguistico, ma anche morale e religioso), com’è noto, è costante e dominante nel poema, dove niente è lasciato al caso. Ogni significante rinvia a un preciso significato. E, quando non si capisce cosa Dante voglia dire, si tratta di una precisa scelta del poeta, che lancia una sorta di sfida al lettore (un concetto che fu sottolineato da mio padre, Bruno Lucrezi).
    Nel verso in questione, il senso non si capisce, ed è chiaramente spiegato il motivo per cui ciò accade. Tuttavia, nonostante le chiare parole di Virgilio, che sembrano invitare a non perdere tempo a decifrare le parole di Nembròt, il cui messaggio deve restare sigillato, la critica dantesca, inevitabilmente, si è, da sempre, impegnata a sciogliere l’enigma, cercando di svelare l’arcano. E un notevole numero di esegeti (non tutti), in particolare, ha affrontato tale lavoro partendo dal presupposto che le parole del gigante siano parole ebraiche, dal momento che era l’ebraico (anzi, per la precisione, come abbiamo chiarito le scorse puntate: la lingua che poi sarebbe rimasta del solo popolo ebraico, e che perciò sarebbe poi stata chiamata così): l’idioma primigenio dell’umanità, da Adamo alla torre di Babele, e quindi anche l’idioma parlato da Nembròt.
    Un ebraico che non si può capire, dunque, ma sul cui significato nascosto sono state comunque – nonostante l’ammonimento di Virgilio – avanzate diverse ipotesi. Esse sono state formulate, in genere, modificando in parte o integrando le parole del verso 67, sulla base della convinzione che Dante abbia volutamente “scompaginato la carte”, dando dei segni al lettore, ma dei segni confusi, ingannevoli, così come la Torre di Babele avrebbe generato confusione e inganno.
    Ho studiato l’ebraico, ma – avendo intrapreso tale studio in età già alquanto avanzata -, purtroppo, con scarsi risultati, per cui non mi sento di giudicare la verosimiglianza dei diversi tentativi di interpretazione del verso misterioso che sono stati avanzati. Mi limito a ricordare alcune di queste proposte: “Lascia, o Dio! Perché annientare la mia potenza nel mio mondo?” (Servi); “Giganti! Che è questo? Gente lambisce, tocca, la dimora santa” (Chiavacci Leonardi); “Giganti, che? Gente che rasenta l’abitacolo segreto della bellezza” (Guerri). Queste ipotesi sono frutto, come è stato detto, di “ingegnosa erudizione”, ma anche “dei piaceri per così dire ‘sportivi’” che versi come questi offrono ai lettori (Mattalia).
    Foscolo condannò tali inutili sforzi, attribuendo ai “dottissimi che professano di fare da traduttori” di Nembròt la sua stessa superbia, e sentenziando che essi meriterebbero, addirittura, la sua stessa pena. Io non condividerei tanta severità. È vero che “i dottissimi” disobbediscono, in un certo senso, a Virgilio, ma credo che lo stesso Dante lo desiderasse, e si compiacesse, probabilmente, di immaginare in quanti sarebbero caduti nella sua ‘trappola’, e come ne sarebbero usciti. E poi, la voce di Virgilio non è una voce divina, e a Dante, spesso, piace la disobbedienza. Tante volte disubbidì ai potenti del suo tempo, a partire dalla stessa Chiesa.
    Io, però – soprattutto per la mia scarsa competenza linguistica -, ubbidisco, non mi azzardo a proporre improbabili ‘traduzioni’, e concludo la mia riflessione con due considerazioni.
    La prima è che, sottoposte al vaglio di una disamina fonetica, quelle di Nembròt appaiono chiaramente parole ebraiche. O meglio, è ebraico il significante.
    Quanto al significato, esso è chiuso in una sorta di labirinto, volutamente costruito da Dante, che ha inteso dare al lettore una dimostrazione pratica di cosa significhi la confusione delle lingue: cercare di capire, e non riuscirci.
    Ma sullo ‘scherzo’ di Dante c’è ancora da dire, alla luce dei primi versi del VII canto del Paradiso. Ne parleremo la prossima puntata. (11/11/2022)

    Francesco Lucrezi
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    Se non ora quando, perché no?
    Pubblicato in Opinioni a confronto il ‍‍18/02/2011 - 14 אדר א' 5771
    Si avvicina la festa di Purim e, come ogni anno, riprendiamo in mano il libro di Ester, un testo che ci parla, tra le altre cose, di mogli da esibire come trofeo, da educare perché rispettino i loro mariti, e poi di una donna inizialmente usata come oggetto di piacere che a poco a poco prende coscienza di sé e si fa soggetto attivo della vicenda, fino a dare il nome allo stesso libro biblico che la racconta. Difficile davvero (e non solo per la Meghillat Ester), affermare che la difesa della dignità della donna non sia un valore ebraico. Dunque mi ha sorpreso che qualcuno si sia scandalizzato per il titolo della manifestazione di domenica scorsa. In mezzo a una folla enorme e festante, tra gente di tutte le età, tra ombrelli e gomitoli colorati, ho provato, anzi, un senso di orgoglio e fierezza a leggere da tutte le parti il motto di Hillel “Se non ora, quando?”. La frase dei Pirkè Avot è decontestualizzata? Per la verità a me sembra che anche il testo che la precede si adatti bene alla situazione di una donna che rivendica la propria autonomia e individualità: “Se non sono io per me, chi è per me? E quando anche io sia per me, cosa sono io?” Del resto l’uso di frasi, o semplici parole, indipendentemente dal proprio contesto è un procedimento tipico del midrash, e ogni frase quando diventa testo canonico di una tradizione viene almeno parzialmente decontestualizzata. Ogni anno durante il seder leggiamo un midrash che trasforma la frase della Torah “Mio padre era un arameo errante” in “L’arameo voleva distruggere mio padre”, che non è esattamente la stessa cosa. E’ così scandaloso se le donne che vogliono difendere la dignità del proprio genere gridano, riprendendo Hillel, “Se non ora quando?”

    Anna Segre, insegnante

    da moked.it
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    Se non ora quando, perché no?
    Pubblicato in Opinioni a confronto il ‍‍18/02/2011 - 14 אדר א' 5771
    Si avvicina la festa di Purim e, come ogni anno, riprendiamo in mano il libro di Ester, un testo che ci parla, tra le altre cose, di mogli da esibire come trofeo, da educare perché rispettino i loro mariti, e poi di una donna inizialmente usata come oggetto di piacere che a poco a poco prende coscienza di sé e si fa soggetto attivo della vicenda, fino a dare il nome allo stesso libro biblico che la racconta. Difficile davvero (e non solo per la Meghillat Ester), affermare che la difesa della dignità della donna non sia un valore ebraico. Dunque mi ha sorpreso che qualcuno si sia scandalizzato per il titolo della manifestazione di domenica scorsa. In mezzo a una folla enorme e festante, tra gente di tutte le età, tra ombrelli e gomitoli colorati, ho provato, anzi, un senso di orgoglio e fierezza a leggere da tutte le parti il motto di Hillel “Se non ora, quando?”. La frase dei Pirkè Avot è decontestualizzata? Per la verità a me sembra che anche il testo che la precede si adatti bene alla situazione di una donna che rivendica la propria autonomia e individualità: “Se non sono io per me, chi è per me? E quando anche io sia per me, cosa sono io?” Del resto l’uso di frasi, o semplici parole, indipendentemente dal proprio contesto è un procedimento tipico del midrash, e ogni frase quando diventa testo canonico di una tradizione viene almeno parzialmente decontestualizzata. Ogni anno durante il seder leggiamo un midrash che trasforma la frase della Torah “Mio padre era un arameo errante” in “L’arameo voleva distruggere mio padre”, che non è esattamente la stessa cosa. E’ così scandaloso se le donne che vogliono difendere la dignità del proprio genere gridano, riprendendo Hillel, “Se non ora quando?”

    Anna Segre, insegnante

    da moked.it
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    Parole – Chokhmah
    Pubblicato in Attualità il ‍‍22/08/2013 - 16 אלול 5773
    Uno dei luoghi comuni più diffusi e imbarazzanti è che gli ebrei siano tutti intelligenti. Noi ebrei, che ci conosciamo, sappiamo bene che non è così. Così scrive Joseph Roth: “E qui si può infine comprendere come l’opinione che gli ebrei siano più intelligenti degli altri popoli sia errata. Già, non solo non sono più intelligenti, qualche volta sono persino più stupidi” (A passeggio per Berlino, Passigli ed., 2012, p. 86; in questo capitolo, intitolato Il Muro del Pianto, lo stesso Roth non brilla per acume storico). Ma da dove nasce questa idea? Forse da quanto scrive la Torah: “Questa grande nazione è certamente un popolo saggio (chakhàm) e intelligente (navòn)” (Deut. 4:6, tr. di rav Elio Toaff, Giuntina ed.). La radice ch-kh-m, da cui le parole chokhmah (saggezza), chakham/a (saggio/a) e chakhamim/ot (saggi/e), compare nella Torah la prima volta in contesto non ebraico, in bocca al Faraone, quando questi cerca persone sapienti per interpretare i suoi oscuri sogni (Gen. 41:8). Qualche tempo dopo, è sempre il Faraone che usa il verbo lehitchakkem (agire con astuzia) per tentare di ostacolare l’ascesa del popolo d’Israele (Es. 1:10). Solo successivamente la parola chokhmah compare in ambito ebraico, quando l’architetto Betzalel viene scelto per presiedere alla costruzione del Tabernacolo, per cui era richiesta “saggezza, intelligenza e conoscenza” (Es. 31:3). Da qui in poi, chokhmah e chakhamim occorrono innumerevoli volte, in particolare – come è ovvio – nei libri cosiddetti sapienziali, ossia Proverbi, Qohelet/Ecclesiaste e Giobbe. Tre citazioni per tutte. “La sua bocca ha aperto con saggezza” (Prov. 31:26, riferito alla donna di valore); “il saggio ha gli occhi nella testa” (Qohelet 2:14, ossia il sapiente vede lontano); “la Sapienza val più delle perle” (Giobbe 28:18, tr. di Amos Luzzatto, Feltrinelli 1991). Il titolo rabbinico rilasciato dal Collegio Rabbinico Italiano era tradizionalmente quello di chakhàm ha-shalèm, saggio completo. Fu rav David Prato, rabbino capo di Roma e Direttore del Collegio nella prima metà del Novecento, a togliere molto opportunamente l’appellativo di shalèm: non si è mai completamente saggi. Nella letteratura rabbinica, il termine chokhmah è usato per indicare a volte la filosofia e la scienza (come quella yevanìt, greca) e a volte la dottrina segreta (chokhmàt hanistàr), ossia la Qabbalah. E la chokhmah, nella Bibbia, è spesso abbinata alla binah (gioco di parole intenzionale). Chi “ha occhi nella testa” capirà dove andremo a parare.

    rav Gianfranco Di Segni Collegio Rabbinico Italiano

    Pagine ebraiche, agosto 2013

    (22 agosto 2013)
  7. .
    DafDaf – Ottanta, una Signora lettera

    Pubblicato in Melamed il ‍‍23/06/2017 - 29 סיון 5777

    Ottanta, un altro traguardo rotondo. Chiuso lo scorso maggio, il numero ottanta di DafDaf è arrivato appena prima dell’estate, prima che il giornale ebraico dei bambini apra la consueta serie dei numeri estivi, pensati per accompagnare i suoi giovani lettori durante le vacanze. Era il settembre del 2010 quando uscì il numero zero di DafDaf, prova di coraggio e di speranza, e soprattutto volontà di affermare a testa alta che l’ebraismo italiano non solo non è ripiegato sul suo glorioso passato bimillenario, ma punta con decisione sui più giovani, e guarda al futuro.
    Sono passati quasi sette anni, e DafDaf ogni mese si presenta all’appuntamento coi lettori grazie al lavoro della redazione ma soprattutto grazie ai regali preziosi dei collaboratori che, un numero dopo l’altro, permettono l’uscita del giornale ebraico dei bambini offrendo illustrazioni, testi, riflessioni e soprattutto voglia di guardare avanti e di progettare, insieme. Nell’ultimo numero, dopo la suggestiva copertina di Luisa Valenti, che ha voluto introdurre il tema con i suoi ottanta piccoli personaggi colorati, DafDaf si apre con una riflessione del direttore della testata, Guido Vitale, dedicata proprio al traguardo rotondo e al suo rapporto con l’idea che da sempre guida le scelte della redazione del giornale dedicato ai giovani lettori: “Parlare, dialogare, confrontarsi”.

    Ottanta, una Signora lettera

    Quando la lettera Pèi va dal dentista, la cosa è imbarazzante. Non che abbia i denti cariati, o che se li spazzoli male. Il problema è che in bocca effettivamente ha un solo dente. Uno solo? E tutti gli altri dove sarebbero andati a finire? Si domanda il dentista imbarazzato. La lettera non sa come spiegarlo. È fatta così da quando era minuscola: mai avuto più di un solo dente in quella bocca enorme che tiene sempre spalancata. Fatto sta che a quanto pare la visita costa comunque gli stessi soldi, perché il dentista, che sia per un dente o per tanti denti, comunque deve lavorare e deve essere pagato.

    L’altro giorno ero nella sala d’aspetto del mio dentista e in effetti mi pareva fosse arrivata anche una Pèi. La segretaria l’ha fatta accomodare, ma quando l’ha salutata ho notato che l’ha chiamata con un altro nome. Ha detto: “Si accomodi signora Ottanta”.

    Ottanta? La questione mi ha incuriosito e poiché fra i miei tanti difetti non manca anche una grave sfacciataggine, appena la segretaria ci ha lasciati soli nella sala d’aspetto ho subito approfittato per domandare: “Buongiorno, scusi. Lei si chiama Ottanta. Ma non è una lettera Pèi”?
    “Beh – ha risposto lei – in effetti è vero, ma chi mi conosce bene mi chiama Ottanta, perché il mio numero è Ottanta”.
    “E questo che vuol dire”?

    La domanda era un po’ sfacciata, lo ammetto, ma in certi casi non posso resistere e chiedo. Da grande vorrei fare il giornalista e se non sai fare le domande e non sai ascoltare le risposte, che diavolo di giornalista saresti?

    La Pèi comunque non si è scomposta e ha cominciato a raccontare la sua storia. “Semplice. Noi tutte, le lettere dell’alfabeto ebraico, abbiamo dentro il valore di un numero. Per esempio la Alef, beata lei, vale Uno. E il mio numero è Ottanta. Quando salto fuori io chi vuole leggere le lettere legge P, ma chi vuole leggere i numeri legge Ottanta. E non basta, perché presto festeggio”.

    Il discorso si faceva sempre più interessante. “Guardi qua – mi fa la Pèi tirando fuori un giornalino dalla borsa – siamo arrivati già al 79. Il prossimo numero sarà tutto speciale per me. Voglio proprio vedere cosa si inventeranno questi matti”. Il giornale era DafDaf, proprio quello che anche voi tenete adesso in mano. Ero partito con una domanda e ora ne avevo tante di più, credo un’ottantina. Perché le lettere, perché i numeri, perché Ottanta. E soprattutto, perché un dente solo? Non sarà forse cariato?

    La Pèi aveva appena pazientemente cominciato a rispondere: “Un solo dente perché questo dente è il simbolo del Linguaggio. E la capacità di parlare è affilata come un dente…”
    In quel momento è arrivata la segretaria del dentista a rovinare tutto. “Signor Guido, venga, adesso è il suo turno”. Mi sono segnato tutte le domande su un taccuino. E non vedo l’ora di tornare dal dentista, di incontrare di nuovo quella Lettera nella sala d’aspetto e di farmi spiegare tutti i segreti della sua esistenza.

    Guido Vitale, da DafDaf 80, maggio 2017

    DD 80 coverParlare, dialogare, confrontarsi

    La diciassettesima lettera dell’alfabeto ebraico è chiamata Pèi. La sua forma è quella di una bocca aperta e assomiglia molto alla forma di un’altra lettera, la Kuf, ma si distingue perché la Pèi ha un dente. La tradizione ebraica spiega che la lettera Pèi è il simbolo della capacità di parlare agli altri e di dialogare, di confrontarsi con loro. Forse per questo gli ebrei discutono continuamente fra di loro e forse per questo anche la parola “bocca” (“Peh”) in ebraico corrisponde al nome della lettera. Dalla bocca viene la nostra capacità di parlare e deriva il grande potere del linguaggio che usiamo per comunicare e per discutere con gli altri. Per questo motivo la lettera Pèi è anche il simbolo della forza più grande, del potere maggiore, e il suo unico dente è molto pericoloso, può mettere in fuga i suoi nemici e può anche fare del male, perché la capacità del linguaggio è il potere più grande che sia dato agli esseri umani.

    (23 giugno 2017)

    da moked.it
  8. .
    LA RIFLESSIONE – Rav Somekh: due “A” da evitare

    Pubblicato in Attualità il ‍‍19/03/2024 - 9 אדר ב' 5784

    “Perciò hanno chiamato questi giorni Purim (“sorti”) dal nome della sorte (pur)” che il malvagio Haman aveva tirato per pianificare lo sterminio di tutti gli Ebrei (Ester 9, 26). Mi domando perché la festa sia stata denominata al plurale, dal momento che nella Meghillat Ester la parola “sorte” appare sempre al singolare. La risposta: Purim segna in realtà il capovolgimento di una sorte infausta doppia. Entrambi i fattori cominciano con la lettera A.
    Anzitutto: A come antisemitismo. È quanto emerge con chiarezza da una lettura piana di quel racconto che tutti noi siamo abituati a sentirci ripetere dacché eravamo alti una mela e una spanna. Il primo ministro privo di scrupoli (Haman) di un re stolto (Achashwerosh) il quale, piccato del fatto che un ebreo di corte (Mordekhay) non si inchinava al suo passaggio secondo le disposizioni che egli stesso aveva dettato, trama di uccidere tutti i suoi correligionari. Senonché la lite del re con la prima moglie (Washtì) conduce una ragazza ebrea (Ester), cugina dello stesso Mordekhay a diventare regina e a sventare l’infame progetto con il sostegno di questi. La data stabilita per lo sterminio diviene occasione di rivalsa per gli Ebrei, i quali stabiliscono il giorno successivo come festivo per le generazioni a venire, a perenne memoria del proprio riscatto.
    Un elemento comune a molte vicende di antisemitismo è la ricerca del silenzio sull’identità, nell’illusione di evitare danni peggiori in futuro: Ester non rivela la propria origine fino alla soluzione della trama. Il Talmud riporta che quando il testo della Meghillah fu poi redatto, la regina stessa chiese di poter essere consegnata alla memoria della posterità, ma i Maestri pretesero in un primo tempo di negarglielo, per le ripercussioni che la notizia della vittoria degli ebrei avrebbe potuto provocare fra le nazioni. Senonché – replicò la regina – gli eventi erano già registrati fra le cronache reali di Media e Persia (Meghillah 7a). Nell’introduzione al suo commento Ibn ‘Ezrà motiva l’assenza del Nome di D. nel testo della Meghillah proprio con il fatto che Mordekhay aveva preferito tenere un profilo basso, sapendo che la sua versione sarebbe finita in mano agli idolatri.
    L’antisemitismo ci pone nella condizione psicologica di essere noi stessi a respingere l’idea di un futuro e, in definitiva, di affermare la nostra identità. Quando Mordekhay esercitò pressioni sulla cugina affinché si facesse ricevere dal re per perorare la causa del suo popolo, Ester indisse un digiuno di tre giorni. Se osserviamo da vicino la cronologia della Meghillah, scopriamo che coincidevano con i primi giorni di Pesach. Quell’anno gli Ebrei di Persia avrebbero rinunciato a fare il Seder. R. Elishà’ Gallico commenta il loro ragionamento: non ha senso ricordare il passato se non abbiamo un futuro davanti a noi. Ma c’è anche un’altra A, non meno rilevante.
    La sfida dell’antisemitismo deve trasformarsi in rivalsa sull’assimilazione. Per apprezzare appieno questo significato occorre consultare il Midrash, che colloca la nota vicenda in una prospettiva più ampia. Il re Achashwerosh era lo stalliere dell’ultimo re di Babilonia, di cui aveva sposato la figlia, Washtì e aveva finito per ereditarne il potere. Prono a compiacere l’influente consorte, aveva rifiutato di acconsentire alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme distrutto dai Babilonesi. La Meghillah si apre con la descrizione del sontuoso banchetto offerto ai dignitari di tutte le nazioni, nel corso del quale Achashwerosh non si peritò di dar da bere agli ospiti nei recipienti sacri del Santuario e di apparire lui stesso vestito con gli abiti del Kohen Gadol. Quel che è peggio: gli Ebrei stessi aderirono di buon grado all’invito, nell’illusione di evitare danni peggiori in futuro.
    D. reagì nascondendo il Suo volto (hester panim: cfr. Devarim 31, 18; Chaghigah 5b; Chullin 139b) o, più esattamente, celandosi dietro la regina Ester (Gaon di Vilna a Ester 1, 2). Mordekhay comprese il vero problema: non ci impegniamo a sufficienza per il nostro ebraismo. Reagì all’editto di Haman radunando i bambini ebrei in massa per insegnare loro Torah. Narra il Midrash che Haman camminava allegro con i suoi amici, allorché incontrò Mordekhay che conversava con tre di loro appena usciti da scuola. Mordekhay chiese a uno di essi: “Che versetto hai imparato oggi?” “Non aver paura di uno spavento improvviso” (Mishlè 3, 25). Il secondo bambino soggiunse di aver imparato: “Fate pure qualsiasi macchinazione, tanto sarà infranta (tufàr) perché D. è con noi” (Yesha’yahu 8, 10). E il terzo: “Io ci sarò fino alla vecchiaia” (ibid. 46, 4). Udendo questi versetti, Mordekhay fu contento. Haman allora gli domandò: “Perché tutta questa gioia?” “Sono buone notizie – disse Mordekhay -: mi insegnano che non devo avere paura di te e di tutto il male che ci vuoi fare” (Ester Rabbà 7, 17).
    In alcuni riti questi tre versetti vengono pronunciati al termine di ogni Tefillah quotidiana. Mordekhay ci insegna a dare importanza allo studio della Torah. Assai più tardi, ancora influenti Maestri del Talmud, quando incontravano i piccoli allievi all’uscita dalle lezioni, erano soliti domandare loro il versetto che avevano imparato per trarne auspici per il resto della giornata (Chullin 95b, Ta’anit 9a). Un’altra versione del Midrash descrive Mordekhay impegnato a insegnare ai suoi piccoli allievi le regole della qemitzah, il gesto con cui il Kohen prelevava parte dell’impasto di farina da offrire sull’altare, benché ai tempi della Meghillah il Tempio non fosse ancora stato ricostruito. Il Talmud ci dice che possiamo compensare un precetto che non siamo in grado di osservare in pratica mediante lo studio (cfr. Wayqrà 7, 37; Menachot 110a), che ha un valore per se stesso. A Purim fu così data sanzione ufficiale dell’esistenza di una Torah Orale accanto a quella Scritta (Ester 9, 27; Shabbat 88b): la stessa Torah Orale che caratterizza ancora oggi il nostro comportamento e la nostra identità.
    L’antisemitismo si contrasta solo combattendo l’assimilazione. Anzitutto perché l’assimilazione dipende essenzialmente da noi, mentre l’antisemitismo è un fenomeno esterno, irrazionale e pertanto difficile da gestire e prevedere per definizione. Ma soprattutto perché dar libero corso all’assimilazione fa il gioco degli stessi antisemiti che vogliono, in un modo o nell’altro, l’estinzione del nostro popolo e delle nostre Comunità. Mettere tutta la nostra attenzione nella lotta contro i mulini a vento dell’antisemitismo, incuranti dell’educazione ebraica dei nostri figli che così moriranno nel proprio letto, anziché in un lager, è un pensiero egoista e miope: l’ennesima illusione di evitare danni peggiori in futuro.
    Un’ultima osservazione sull’etimologia della parola pur (“sorte”). Mentre Ibn ’Ezrà (a Ester 3, 7) la considera una parola persiana (lingua indoeuropea, da confrontarsi presumibilmente con il latino: for-s, for-tuna), R. David Qimchi e altri grammatici si sforzano di trovarvi una radice semitica e la identificano nella stessa del verbo già visto tufar (“sarà infranta”; cfr. Sefer ha-Shorashim s.v.). Questo medesimo verbo è adoperato nella Torah a proposito della hafarat nedarim. Se la moglie fa il voto di crearsi determinate proibizioni che possono avere una ricaduta sulla vita coniugale, entro il giorno stesso il marito ha il potere di “infrangere” e annullare il voto fatto (Bemidbar 30, 13). Se la Comunità d’Israel assume comportamenti tali da pregiudicare la sua relazione con lo Sposo Celeste, Questi ha la facoltà di revocarle e capovolgerle (nahafokh hu: Ester 9, 1). Dobbiamo solo renderci disponibili prima che trascorra il giorno. Questo è il senso di Purim. Chag Sameach.

    Rav Alberto Moshe Somekh

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    PURIM – Rav Momigliano: Il precetto della gioia

    Pubblicato in Attualità il ‍‍24/03/2024 - 14 אדר ב' 5784

    “Da quando inizia il mese di Adar si aumenta la gioia”, così ci insegnano i Maestri (TB. Ta’anit 29a); in questi giorni, alla vigilia del mese di Purim (quest’anno Adar II) ci chiediamo cosa fare di una prescrizione che ci parla di gioia, di un sentimento che ora difficilmente troviamo nel nostro animo, tanto meno sentiamo di poter aumentare il poco che vi sia rimasto. Cosa rispondere? Inizio con la risposta più difficile, che scrivo – ma niente è casuale – nel corso di un viaggio della Memoria in Polonia. Con questo personale coinvolgimento emotivo riporto un pensiero di Elie Wiesel (richiamato in un articolo di rav Ronen Noibert), che scriveva: “Il Gaon di Vilna diceva che il precetto ‘Gioisci nella festa’ è la mizvah più difficile da osservare, solo nei giorni della guerra ho capito il pensiero del Maestro. Quegli ebrei che, mentre andavano verso la fine di ogni speranza, riuscirono a danzare per Simchat Torah, quegli ebrei che studiavano a memoria pagine di Talmud mentre portavano pesanti macigni sulle loro spalle, quegli ebrei che silenziosamente intonavano i canti dello Shabbat mentre dovevano compiere lavori massacranti, loro ci hanno insegnato come un ebreo deve comportarsi nel momento della sventura. Per quelli della mia generazione il comandamento della gioia era una disposizione impossibile a compiersi, eppure è stata realizzata”.

    Altre risposte sono individuate nelle riflessioni che invitano a vivere la gioia di Purim, come un sentimento ampio e profondo, non limitato a un superficiale stato d’animo di contentezza individuale e non ristretto nei margini di tempo dei giorni della festa. La prima riflessione le quattro mizvot di Purim: solo due, la lettura della Meghillà di Ester sera e mattina, e il pasto festivo, appaiono legate alla ricorrenza;gli altri due precetti, fare doni ai poveri e regalare dei buoni cibi ad amici, non sembrano collegati con il significato di Purim. Qual è allora il senso di questi comandamenti? La mizvà del dono ai poveri ci ricorda che non esiste vera gioia che prescinda dall’aiuto, discreto ma concreto, a chi ne ha più necessità; un precetto che ci impone di guardare attorno a noi con attenzione e sensibilità, con la consapevolezza che lo stato d’animo personale, proprio in quanto poco propenso a gioire, ancora di più deve indirizzarci verso coloro che, oltre a condividere le stesse angosce, vivono con maggior disagio la quotidianità per la ristrettezze dei loro mezzi. In modo analogo, i regali a persone care ci dicono che la gioia significa anche rinnovare e rinsaldare legami di amicizia con gesti di attenzione e gentilezza; che sentiamo possibile confortarci nel tempo della tristezza e trovare insieme, nei sentimenti condivisi, la forza e il coraggio per affrontare le difficoltà.

    Tutte le mizvot di Purim manifestano la gioia alimentando comportamenti e sentimenti positivi da sviluppare nel resto dell’anno: la fiducia che anche nei momenti più duri sia sempre nascosto un progetto di D.O; la forza più intima che proviamo nel far parte di un popolo che ha visto sparire i nemici più crudeli; l’attenzione e la generosità verso chi è attorno a noi; la gioia più profonda di questo Purim, è sentire che, malgrado tutto, siamo dalla parte giusta.

    Rav Giuseppe Momigliano

    da moked.it
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    Libero Rassegna Stampa

    06.04.2024 Israele chiude trenta ambasciate
    Cronaca di Maurizio Stefanini

    Testata: Libero
    Data: 06 aprile 2024
    Pagina: 17
    Autore: Maurizio Stefanini
    Titolo: «Israele chiude trenta ambasciate»

    Riprendiamo da LIBERO di oggi, 06/04/2024, a pag. 17 con il titolo "Israele chiude trenta ambasciate" la cronaca di Maurizio Stefanini.



    Chiusa l'ambasciata di Israele a Roma. Una delle trenta sedi diplomatiche che Israele ha chiuso come misura di emergenza, a causa del rischio di attentati iraniani. «L’Iran risponderà senza dubbio all’attacco israeliano contro il consolato iraniano a Damasco», ha detto peraltro il capo degli Hezbollah libanesi Hassan Nasrallah
    Anche l’ambasciata di Israele a Roma, in via Michele Mercati vicino a Villa Borghese, è tra le 30 sedi diplomatiche che sono state chiuse per misura precauzionale, di fronte alla minaccia di una rappresaglia iraniana su cui ha messo in guardia la Cia.
    Un allarme scattato in seguito alle notizie su possibili attacchi in seguito al raid al consolato iraniano a Damasco, nel quale sono morti alti funzionari di Teheran.
    La fonte sulle 30 sedi israeliane all’estero chiuse nel mondo nel timore di attacchi da parte dell'Iran è il quotidiano Haaretz, che ha citato una fonte diplomatica secondo cui le misure di sicurezza sono state accresciute in tutte le istituzioni israeliane nel mondo dallo scorso 7 ottobre. «L’Iran risponderà senza dubbio all’attacco israeliano contro il consolato iraniano a Damasco», ha detto peraltro il leader degli Hezbollah libanesi Hasan Nasrallah in un discorso televisivo, pur aggiungendo che «solo Khamenei può decidere come, quando e dove ci sarà la risposta dell'Iran a Israele». Secondo lui, comunque, «l’attacco al consolato (iraniano di Damasco) costituisce una svolta nella guerra in corso e la regione è entrata in una nuova fase».

    TRE SCENARI

    Una risposta di Teheran dopo il raid israeliano dei giorni scorsi è data per scontata da molti analisti e lo stesso apparato di difesa israeliano è convinto che avverrà.
    «Ci aspettano giorni complessi, non è detto che il peggio sia dietro di noi», ha ammesso il capo dell'intelligence militare Aharon Aliva. «Ma siamo pronti per tutti gli scenari», ha precisato il portavoce dell'Idf Daniel Hagari, aggiungendo che «le forze sono ben schierate in formazioni difensive e offensive» con una «protezione su più livelli e aerei in cielo 24 ore su 24».
    Tre sono gli scenari di possibili rappresaglie intravisti da Haaretz. Uno è un attacco di droni o di missili da crociera direttamente dall’Iran diretti verso infrastrutture israeliane: ma questa è l’ipotesi che pare meno probabile. La distanza darebbe infatti più tempo per reagire, e il territorio iraniano verrebbe esposto direttamente.
    Più probabili sono intensi attacchi di missili dal Libano o dalla Siria attraverso gli Hezbollah e altre milizie sciite: cose del genere avvengono in continuazione, e sarebbe solo un problema di scala.
    Ma il terzo rischio è quello di «attentati alle ambasciate israeliane»: non è stato frequentissimo, ma c’è stato. In particolare, il 17 marzo 1992 vi fu quell’attentato all’ambasciata di Israele a Buenos Aires che provocò 30 morti e 242 feriti, e fu rivendicato dalla Jihad Islamica. Ma sono fortissimi gli indizi su un ruolo di Hezbollah e Servizi iraniani.
    E il 18 luglio 1994 sempre a Buenos Aires un altro attentato colpì la l'Asociación Mutual Israelita Argentina, facendo altri 85 morti e oltre 300 feriti. Anche lì, è considerato che dietro ci siano stati Hezbollah e servizi iraniani.
    Insomma, più praticabile che la prima ipotesi; e rappresenterebbe una risposta più forte della seconda ipotesi.
    La stessa Roma soffrì un dramma del genere alle 11:55 di sabato 9 ottobre 1982, quando un commando di cinque palestinesi attaccò con mitra e bombe a mano la sinagoga di Roma nel giorno in cui si celebravano contemporaneamente lo shabbat, il bar mitzvah di alcune decine di adolescenti della comunità ebraica romana e lo Shemini Atzeret, a chiusura della festa di Sukkot.

    UN PRECEDENTE

    Si stima che nel Tempio fossero presenti almeno 300 persone, fra cui almeno una cinquantina di minorenni con le rispettive famiglie. L'attentato, il più grave atto antisemita avvenuto in Italia a partire dal secondo dopoguerra, causò la morte di Stefano Gaj Taché, di due anni, colpito a morte da una scheggia di una bomba a mano. 40 persone furono ferite, fra cui i genitori e il fratello della vittima, Gadiel Gaj Taché, di 4 anni, colpito alla testa ed all'addome. L’Iran ha comunque chiesto «efficaci misure preventive e azioni punitive» contro Israele per «il genocidio e le uccisioni di massa da parte del regime sionista a Gaza», attraverso il ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian, in una nota in occasione del Quds (Gerusalemme) Day, ricorrenza legata al sostegno alla Palestina e all'opposizione a Israele, che viene osservata nell'ultimo venerdì del Ramadan.
    «Queste atrocità dovrebbero essere messe in evidenza davanti alle assemblee internazionali, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e alla Corte Penale internazionale», ha detto lo stesso Amirabdollahian, chiedendo di mettere in pratica azioni punitive contro Tel Aviv.
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    Parashà di Sheminì: L’importanza delle leggi alimentari
    Donato Grosser
    | 05-04-2024


    In questa parashà vengono specificati gli animali kashèr e quelli che non lo sono. Il testo si conclude con queste parole: “Questa è la legge concernente i quadrupedi, gli uccelli, ogni essere vivente che si muove nelle acque e ogni essere che striscia sulla terra, affinché sappiate distinguere ciò che è impuro da ciò che è puro, tra l’animale che si può mangiare da quello che non si deve mangiare” (Vaykrà, 11: 42-47).
    ​I maestri nel Midràsh Sifrà (173) osservano: (Perché è scritto) “per distinguere ciò che è impuro e ciò che è puro”: non dovrebbe essere detto “tra la mucca e l’asino”?. Si, ma (le loro differenze) non sono già spiegate (nella Torà)? Qual è allora l’intento (delle parole) “tra l’impuro e il puro”? (La risposta è) tra ciò che è impuro e puro per te: tra la shechità (che ha tagliato) la maggior parte della trachea (dopo la shechità dell’esofago, nel qual caso l’animale è kashèr), e la shechità della (sola) metà della trachea (dopo la shechità dell’esofago, nel qual caso l’animale è una nevelà e quindi non è kashèr). E in cosa consiste questa differenza? Nello spessore di un capello.
    ​R. Meir Leibush Wisser (Ucraina, 1809-1879) detto Malbim dalle sue iniziali, commenta che l’espressione “distinguere” viene usata quando è necessario distinguere tra due cose che sono uguali, e la sola differenza è, per esempio, che uno è kòdesh (sacro) e l‘altro chol (profano). Per cose che sono totalmente differenti, come un asino e una mucca, non è necessario parlare di distinzione. Questo è il motivo per cui i Maestri affermano che la Torà intende distinguere tra due animali uguali: all’uno è stata fatta una shechità secondo le regole; all’altro invece no, per la differenza minima di un capello. ​
    ​Questo passo midrashico viene citato da r. Moshè Chayim Luzzatto (Padova, 1707-1746, Acco) nella sua opera morale Mesillàt Yesharîm (La salita degli uomini retti). Nel capitolo intitolato “I dettagli della nettezza”, nel quale spiega l’importanza di essere totalmente puliti dalle trasgressioni, egli scrive:”Sotto questo aspetto i cibi proibiti sono peggiori di tutte le altre proibizioni perché entrano nel corpo della persona e diventano carne della sua carne”. La differenza di un capello tra un animale proibito e uno permesso “mostra quanto sia grande la forza delle mitzvòt per cui lo spessore di un capello costituisce la differenza tra impurità e purità”.
    ​Sullo stesso argomento R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p.74) osserva che nella Torà si parla di preghiera solo in un versetto (Devarîm, 11:13) mentre vi sono molti capitoli che trattano le leggi alimentari. Egli scrive che per l’uomo è più facile pregare che astenersi da del cibo che lo attrae. L’uomo è pronto a servire Dio in modo spirituale ma risente ogni interferenza nelle sue abitudini alimentari, o nel modo in cui soddisfa i sui desideri fisici. Tuttavia la Torà insegna che è impossibile santificare lo spirito senza disciplinare il corpo. Egli aggiunge che la Torà non rigetta il corpo. Il corpo è parte dell’essere umano e cosî pure lo spirito. Ma il corpo non dev’essere quello di un selvaggio. Dev’essere santificato ed elevato.

    da shalom.it
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    La parola è fede
    Ester Pavoncello
    | 04-04-2024


    La Emunah, אֱמוּנָה fede, riguarda la conoscenza e l’assimilazione della grandezza di Hashem, che sostiene il mondo anche quando Egli sembra nascosto.
    Secondo il Chazon Ish tale fiducia, è la parte teorica, la Bitachon, sicurezza, la parte pratica.
    La prima frase che si recita al risveglio, “mode’ ani lefanecha”: Ti rendo omaggio, re vivente e permanente, che con tenerezza mi hai restituito la mia anima, grande è la Tua fedeltà. Il rapporto di fiducia è reciproco. Noi confidiamo nel Re del Mondo, Egli confida in noi. Dal momento in cui apriamo gli occhi, siamo vitali per affrontare un’altra giornata. La nostra attività basata sull’esecuzione dei precetti, con una condotta morale di rispetto reciproco e correttezza in tutti gli ambiti. Il Senza fine ha fiducia in noi, nelle nostre potenzialità di esseri finiti, imperfetti. Ma Egli ci ama per ciò che siamo, come un padre. È disposto ad essere misericordioso, a chiudere un occhio considerando le nostre buone intenzioni. Imperativo trovare i punti luminosi nella nostra vita e mantenere il “fuoco eterno”, agendo sempre con motivazione ed entusiasmo. Come il bambino si affida a sua madre che lo accudisce con amore e piena fiducia; con la stessa semplicità il devoto confida in Dio. La sua radice א מ ן si apre proprio al tema della madre, per terminare con la lettera נ del femminile e del dare נ ת ן. La stessa lettera di Nachshòn ben Aminadav, si è affidato entrando nelle acque, fino al collo, quando non erano state divise dal miracolo.
    Dalla stessa radice deriva allenamento אימון: la fede va alimentata, mantenuta come in palestra. Esercitando azione, pensiero, parola.
    Nel tehillim 89 verso 2 “Canterò per sempre la bontà dell’Eterno e attraverso le generazioni, renderò nota con la mia bocca, la Tua fedeltà”.
    Rabbi Nachman, in Likutey Moharan II 44, insegna che la fede dipende dalla bocca di una persona. Parlare di Emunah è qualcosa che crea la fede, anche dove non è innata. È bene parlare con parole che siano legate ad elementi di santità, tali da risvegliare la forza della kedushà ed annullare la forza dell’istinto cattivo, che potrebbe innescare dubbi sulla fede in Dio. In tal caso ripetere ad alta voce: credo che Hashem è Uno. Il Primo. L’Ultimo. Per sempre.
    In Berachot 5 a, una persona dovrebbe sempre risvegliare il suo istinto buono, affinché contrasti l’istinto cattivo.
    Parlare di Emunah, anche se non ci si crede appieno, fa entrare le scintille di santità. Di contro, evitare di riportare frasi, da miscredente, anche se non si crede a ciò che si dice, genera forze negative, come scherzare o deridere argomenti sacri.
    Alla domanda di routine: come stai? La risposta migliore: Baruch Hashem! Indipendentemente da come vanno le cose, la parola crea. Ed è bene generare una realtà positiva, in cui abbiamo fiducia in Hashem, incondizionatamente. Tutto è per il bene.
    Non bisogna andare alla ricerca di chissà quali risposte. Ci basta la fede semplice dei nostri padri. Essere tam veiashar, semplici e retti. Dovremmo auspicare ad avere la fede delle nonne di un tempo; che pregavano se il nipotino aveva la febbre alta. Una persona che vive nella rettitudine è veramente felice. Semplicità non è sinonimo di stupidità: in un universo di saggezze, la Verità è la Torah. La nostra forza è che Kadosh Baruchu è dietro di noi. Siamo usciti dall’Egitto senza armi. Abbiamo sconfitto Amalek senza armi. Conquistato Gerico girando e cantando con gli shofarot. La forza dell’ebraismo è la preghiera. Le nostre matriarche erano sterili, era gradita ad Hashem, la loro supplica. L’essere umano è fatto di carne e sangue, non risiede in lui la perfezione. Il trattato di Kiddushin 54 afferma “La Torah non è stata data agli angeli” L’uomo è un essere vivente terreno, incompleto. Come esordisce Vaikra cap.18 verso 5 “Voi dovete rispettare i Miei statuti e le Mie leggi, grazie ad essi l’uomo che li metterà in pratica vivrà”. Hashem non governa le sue creature con tirannia (Massechet Avoda Zarà 3 a).
    Non c’è nulla che tu debba assolutamente fare. Dio esonera una persona in caso di costrizione. Certo è che ci dovremmo sforzare di usare la bocca, prestando la massima attenzione a ciò che ci entra. Scegliendo solo cibo kosher. E non meno importante selezionare ciò che vi esce, evitando Lashon Aràh, la maldicenza.
    A concludere, il dodicesimo articolo di fede di Rambam: Io credo con una fede completa nella venuta del Mashiach ed anche se tarderà a venire, con tutto ciò, lo aspetterò ogni giorno che verrà. אָמֵן

    da shalom.it
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    Libero Rassegna Stampa

    05.04.2024 Contro Israele i prof del peggiore estremismo rosso
    Commento di Francesco Storace

    Testata: Libero
    Data: 05 aprile 2024
    Pagina: 12
    Autore: Francesco Storace
    Titolo: «Contro Israele salgono in cattedra i prof del peggiore estremismo rosso»

    Riprendiamo da LIBERO di oggi 05/04/2024, a pag. 12, con il titolo "Contro Israele salgono in cattedra i prof del peggiore estremismo rosso", il commento di Francesco Storace.


    Francesco Storace


    Rieccolo. Mario Capanna, uno dei più estremisti durante il Sessantotto, torna in prima linea, ovviamente contro Israele. Predica il boicottaggio che per lui è «necessario. Israele è uno stato fuorilegge, una fabbrica indefessa di antisemitismo». Israele "fabbrica di antisemitismo", avete sentito bene.
    Sale in cattedra il peggiore estremismo rosso. Per carità, non è certo una novità, ma ci sono i professori con nomi che colpiscono.
    Insultano e si lamentano delle querele che ricevono. Poi gli antichi ruderi che istigano contro Israele. E quelli che incitano al boicottaggio.
    Su Tel Aviv, anzi contro, non ci facciamo mancare nulla. I giovani hanno da apprendere i rudimenti dell’arroganza, devono mettere in pratica gli insegnamenti dei teorici dell’oltranzismo, più che studiare si fanno mettere sotto.
    C’è da strabuzzare gli occhi a leggere quanto verga la più nota star degli atenei rossi, quella professoressa Donatella Di Cesare che ancora singhiozza per la scomparsa della brigatista rossa Barbara Balzerani. La povera Di Cesare, ordinaria di filosofia teoretica a La Sapienza di Roma, dovrà rinunciare a qualcuna delle sue lezioni rivoluzionarie nei giorni in cui le toccherà rispondere di fronte ai giudici. Infatti è stata mandata a processo in seguito ad una querela per diffamazione presentata dal ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Che evidentemente non era così infondata.
    L'udienza in tribunale a Roma è in programma il 15 maggio. Lei, la Di Cesare, arringa per se stessa con note ai media: «Tutto ruota intorno alla formula “sostituzione etnica” che il ministro ha pronunciato al congresso Cisal il 18 aprile 2023 suscitando molto scalpore.
    La sera dello stesso giorno, nella puntata del programma DiMartedì su La7, quando mi è stato chiesto di commentare, ho detto che “il nazismo è stato un progetto di rimodellamento etnico del popolo e il mito complottistico della sostituzione etnica è nelle pagine del Mein Kampf di Hitler”. Ho aggiunto: “Credo che le parole del ministro non possano essere prese per uno scivolone, perché ha parlato da Gauleiter, da governatore neohitleriano”. Questa mia opinione si è basata sui miei studi di anni su questo argomento». Speriamo che sia stata l’unica a studiare in questo modo, se i risultati sono questi.
    E poi la giaculatoria stile Saviano: «Duole constatare che un ministro, dal suo posto di potere, denunci una privata cittadina. Soprattutto preoccupa l’abuso di querele per tacitare le voci del dissenso intellettuale. Gli esponenti di un governo democratico dovrebbero essere aperti al confronto e rispondere con le parole e i mezzi della discussione pubblica alla critica politica anche aspra. Al contrario qui arrivano querele come manganellate. Non mi faccio tuttavia intimidire. Ho fiducia nella magistratura e mi difenderò in tribunale».
    Sicura di avere tutta questa fiducia? Il pianto preventivo non è un bel biglietto da visita per il processo.

    RITORNA CAPANNA

    In questo clima può mancare Mario Capanna. Alla sua bella età continua a minacciare sfracelli e a istigare il mondo. Persino un’intervista al moderatissimo Foglio è sufficiente per appiccare i consueti incendi a cui ci abituò da giovane, ormai tantissimi anni orsono.
    Per Mario Capanna il boicottaggio universitario contro Israele è «necessario. Israele è uno stato fuorilegge, una fabbrica indefessa di antisemitismo».
    Quindi gli antisemiti non sono quelli del 7 ottobre.
    Rompere i rapporti scientifici con le università israeliane? «Assolutamente, sì», dice l’antico leader dell’estremismo rosso ormai alla sua quindicesima giovinezza. «Israele sta compiendo uno sterminio di massa».
    Poi Capanna nega che ci sia boicottaggio: «L’Università è il luogo della totalità dei saperi». E cosa significa? «Gli atenei non possono ignorare la tragedia immane della Palestina. Israele pratica uno sterminio». E quindi al muro chi collabora con Tel Aviv.
    Non finisce qui, perché si affaccia da La Stampa pure il fisico Carlo Rovelli, per il quale comunque le parole non sono un problema: «Lo strumento del boicottaggio ha dato buoni frutti in passato», mica si spaventa.
    E quello che succede negli atenei, il divieto di parlare al direttore di Repubblica Molinari e al giornalista Parenzo (guai a parlargli di Capezzone...) sono cose da fare? Lui fa spallucce e giustifica quelle aggressioni. Molinari e Parenzo «sono tra le persone la cui voce è ascoltata in tutta Italia» e quindi «chiedere che non parlino non è certo togliere la parola a qualcuno».
    Professori... figuriamoci come possono crescere i loro studenti.
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    Il Foglio Rassegna Stampa

    02.04.2024 Damasco, il colpo di Israele
    Analisi di Micol Flammini

    Testata: Il Foglio
    Data: 02 aprile 2024
    Pagina: 1
    Autore: Micol Flammini
    Titolo: «Il colpo di Israele»

    Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 02/04/2024, a pag. 1, con il titolo "Il colpo di Israele" l'analisi di Micol Flammini.



    A Damasco, Israele ha colpito un edificio presso l'ambasciata iraniana, uccidendo uno dei leader della Guardia Rivoluzionaria all'estero. Il bombardamento è stato effettuato come risposta a un attacco con un drone iraniano su Eilat
    A Damasco è stato colpito un edificio vicino all’ambasciata iraniana, mentre al suo interno si teneva un incontro tra i membri delle Guardie della rivoluzione. L’edificio era la sede di queste riunioni assidue in cui sono spesso stati progettati attacchi contro Israele, e ieri al suo interno c’erano figure importanti, come Mohammad Reza Zahedi, che è stato a capo delle forze al Quds in Siria e in Libano, principale responsabile dei rapporti con Hezbollah in Libano e con le milizie filoiraniane in Siria. Nell’edificio c’era parte della struttura portante della guerra dell’Iran contro Israele. La Siria e l’Iran hanno subito accusato lo stato ebraico, che non ha smentito e non avrebbe ragioni per non essere interessato a un attacco tanto duro che ha portato all’eliminazione di una figura centrale e la cui importanza era anche superiore a quella di Razi Mousavi, il generale pasdaran ucciso a dicembre dello scorso anno, uomo fidato di Qassem Suleimani che di questa catena di comando è stato l’ispirazione. Zahedi era un pilastro delle forze al Quds, sanzionato dagli Stati Uniti, ha protetto il dittatore siriano Bashar el Assad, ha armato i gruppi che minacciano Israele, ha gestito le informazioni di intelligence fra Teheran e le sue milizie che per numero e arsenali ormai sono dei veri eserciti. La Siria e l’Iran, subito dopo l’attacco, hanno promesso una risposta dura contro l’“entità sionista”, e gli attacchi dal Libano contro Israele hanno cominciato a farsi intensi contro quel confine che da mesi è più pericoloso del sud a ridosso della Striscia di Gaza perché Hezbollah è ben armato, è organizzato, ha costretto lo stato ebraico a evacuare le città senza poter dare una prospettiva di ritorno ai suoi cittadini.

    Dopo l’attacco a Damasco, girava una foto che ritraeva Zahedi e Suleimani molto più giovani e in compagnia di un altro generale iraniano, Ahmad Kazemi, di un comandante di Hezbollah, Imad Mughniyeh, e del capo attuale dei miliziani del libano Hassan Nasrallah: sono tutti morti tranne l’ultimo, che vive in un bunker. Israele ha intensificato la sua politica di risposta contro l’Iran ed è la seconda volta in quattro giorni che colpisce in Siria. Gli attacchi si sono fatti più forti, frequenti e tutto è considerato un obiettivo. Nelle ultime settimane, gli israeliani avevano fatto capire che non avevano più intenzione di considerare gli attacchi dei gruppi armati che lo circondano come indipendenti dalla volontà iraniana: se Hezbollah colpisce è perché Teheran vuole; se un drone parte dall’Iraq contro la città israeliana di Eilat e danneggia una base navale, come accaduto domenica notte, è perché l’Iran lo ordina e Gerusalemme non vuole più ignorarlo. Venerdì, dopo l’attacco ad Aleppo che aveva colpito un quartier generale di Hezbollah, il ministro della Difesa Gallant aveva detto che Tsahal è pronto a espandere la sua campagna “dovunque”. Gli Stati Uniti lo sanno e probabilmente è anche di questo che ha parlato Gallant durante il suo viaggio a Washington la scorsa settimana. La guerra sta cambiando e cambiano anche le trattative con Hamas: secondo Axios, Israele è pronto ad ammorbidire le sue condizioni sul ritorno dei civili palestinesi a nord della Striscia di Gaza.
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    Libero Rassegna Stampa

    03.04.2024 Il PD si schiera con chi boicotta Israele
    Commento di Pietro Senaldi

    Testata: Libero
    Data: 03 aprile 2024
    Pagina: 1/5
    Autore: Pietro Senaldi
    Titolo: «Il PD si schiera con chi boicotta Israele»

    Riprendiamo da LIBERO di oggi, 03/04/2024, a pag.1/5, con il titolo "Il PD si schiera con chi boicotta Israele" il commento di Pietro Senaldi.


    Pietro Senaldi


    Occupazioni pro-Palestina nelle università. Alfredo D’Attorre, deputato del PD si schiera dalla parte degli atenei che interrompono i contatti con le università israeliane. Dicendo che sia "del tutto legittimo" che "si interroghino" sulle "forme di collaborazione duale" (civile/militare), dove di cooperazione militare non c'è nulla.
    Fortuna che l’onorevole Alfredo D’Attorre parla raramente; perché ogni volta che dichiara, produce la fastidiosa sensazione che delle sue esternazioni non si sentiva la mancanza. Ci sarà un motivo, del resto, se il parlamentare salernitano è il cocco di Roberto Speranza, che lo vuole al suo fianco nella tragica esperienza di Articolo 1. Oggi l’ardimentoso Alfredo, che è tornato nel Pd non perché ha cambiato idea lui ma solo in seguito alla vigorosa sterzata a sinistra del partito fu progressista, è responsabile dell’Università nella segreteria nazionale dem.
    In tale veste, D’Attorre ha strizzato l’occhio, seppur con eleganza e in maniera sottile, all’antisemitismo strisciane nei nostri atenei. «Fermo restando che l’interruzione degli scambi scientifici e culturali rimane, in linea di principio, una strada da evitare, è del tutto legittimo che gli organi di governo delle università si interroghino rispetto a forme di collaborazione tecnologica duale - cioè sia civile sia militare - o che possano avere ricadute in ambito bellico».
    Il parlamentare parla per tappare la bocca alla ministra dell’Università, la forzista Annamaria Bernini, invitandola espressamente a «non cedere a chi vorrebbe che assumesse una posizione di formale e esplicita censura dei rettori che hanno sospeso le collaborazioni con le università israeliane». Segue un’intemerata sull’autonomia degli atenei e l’accusa di follia nei confronti di chi ha accusato i consigli accademici che hanno interrotto le relazioni con le istituzioni dello Stato Ebraico, come quello della Normale di Pisa, di atteggiamento anti-sionista e, spingendosi nel sillogismo, di comportamenti nazistoidi.
    D’Attorre rivela in un sol colpo l’ambiguità del suo partito in politica estera e la leggerezza indulgente con cui coccola il mondo universitario, sperando che diventi sempre più un bacino di voti dem. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, il Pd deve chiarire una volta per tutte se ritiene Israele uno Stato amico, il baluardo della civiltà occidentale in Medio Oriente nonché una nazione che sta disperatamente lottando per la propria sopravvivenza, oppure, alla stregua di Hamas e del terrorismo islamico, se è convinto che esso non debba più esistere, vada spianato, dal fiume Giordano al mare, come da slogan dei Paesi canaglia.
    Elly Schlein e compagni non possono cincischiare oltre in una vicenda così delicata alla vigilia del voto europeo. La simpatia più volte dimostrata nei riguardi delle manifestazioni a favore del popolo palestinese, che si trasformano inevitabilmente sempre in sfilate anti-semite, induce a pensare, senza bisogno di scomodare D’Attorre, che i dem non abbiano il coraggio di assumere una posizione in politica estera a favore dell’Occidente; oppure che non vogliano assumerla, perché nel loro Dna è ben radicato il seme dell’antisemitismo. Questo non significherebbe avallare tutte le operazioni dell’esercito israeliano a Gaza. Il presidente americano Biden le ha condannate con fermezza, ma nessuno dubita che lui e gli Stati Uniti sono amici di Israele.
    Per quanto riguarda il mondo universitario, è evidente che per un Paese come l’Italia, che da sempre vende armi anche a regimi totalitari, la distinzione che D’Attorre fa, tra collaborazioni tra atenei con possibili applicazioni militari e collaborazioni culturali, è pelosa. Se vendiamo armi a chi non c’è mai stato amico, potremmo ben collaborare con chi amico nostro è sempre stato.
    Ma l’ipocrisia non si ferma qui.
    Quando parla di autonomia degli atenei, il cocco di Speranza finge di non sapere che, spesso, il rettorato rincorre gli studenti estremisti, si piega ai loro impulsi antisemiti. È successo già la settimana scorsa a Torino, peraltro una delle città italiane dove la comunità ebraica è più numerosa. Da sempre le università sono avanguardie politiche, luoghi di contestazione e, più raramente, perfino di progresso sociale e culturale.
    È normale sia così mai i professori, e i politici, dovrebbero ascoltare gli studenti per guidarli, non per obbedirli.
    Sono tempi caldi e difficili. La politica, anziché smorzare l’incendio, sembra appiccarlo, perché per l’opposizione tutto va bene pur di mettere in difficoltà il governo. Attenzione, la storia insegna. Dall’università di Trento, dove oggi il rettore, per inseguire le isterie del politicamente corretto, con sprezzo del ridicolo chiama “professoressa” anche i professori uomini, più di cinquant’anni fa, sono nate le Brigate Rosse, con Renato Curcio e Margherita Cagol.
    La prima funzione di un ateneo dovrebbe essere aumentare il sapere, non fare politica; e le collaborazioni con le università israeliani, avanzatissime, vanno in questa direzione. A furia di inseguire la politica e le mode, anche pericolose, l’università si perde. Non a caso i deliri del politicamente corretto hanno fatto sì che quest’anno le iscrizioni ad Harvard diminuissero per la prima volta in un secolo. Questo capita a chi si fa dettare la linea dalle minoranze, siano queste gli studenti antisemiti, siano i parlamentari del Pd.
    Nel caso di D’Attorre poi, parliamo della minoranza della minoranza.
1081 replies since 12/8/2020
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