Ebraismo e aborto (problemi di Halachah contemporanea)

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  1. wammaa
     
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    L’Halakhah e la questione dell’aborto
    Pubblicato in Attualità il ‍‍27/12/2014 - 5 טבת 5775
    rav di portoI progressi tecnici degli ultimi decenni in numerosissimi campi hanno determinato l’insorgere di nuove problematiche con le quali la Halakhàh non si era precedentemente confrontata. Per esempio la possibilità di prevedere delle malattie genetiche a carico di un feto con un sufficiente grado di attendibilità è una conquista scientifica relativamente recente, e pertanto i poseqim si sono espressi diffusamente negli ultimi anni circa la possibilità di praticare in questi casi l’aborto. In precedenza l’ottica era rovesciata, e tale domanda, non avendo informazioni certe in merito, non era rilevante, mentre si concentrava la propria attenzione sullo stato di salute della madre, qualora la gravidanza costituisse un pericolo per lei. Qualsiasi altra giustificazione, di natura economica, lavorativa, o estetica, non viene contemplata dalla Halakhà2.
    L’omicidio è considerato uno dei peccati maggiormente gravi, ed è uno dei tre peccati in cui si afferma il principio yehareg we-al ya’avor (si faccia uccidere piuttosto che trasgredire). Tale concetto si trova sullo sfondo di qualsiasi trattazione sull’aborto.
    Nella legislazione ebraica il feto ha uno status intermedio: sotto vari punti di vista (p.e. eredità, leggi di purità) il feto non costituisce un individuo (nefesh), tanto da essere considerato sotto certi aspetti una parte del corpo della madre, ma sotto altri punti di vista (p.e. la trasgressione del sabato per salvarlo) è considerabile come un individuo a pieno titolo.
    Nella Toràh si parla dell’aborto in Es. 21,22-23: “se alcuni venissero a rissa e l’uno di loro urtasse una donna incinta in modo da farla abortire senz’altro danno, egli sarà condannato a pagare quell’ammenda che il marito della donna incinta avrà richiesto e i giudici avranno approvato, se invece la moglie morrà farai pagare corpo per corpo”.
    C’è da notare che in fonti ebraiche non halakhiche, probabilmente sotto l’influenza della tradizione dei Settanta, questi versi si riferirebbero all’aborto come un omicidio, e la gravità dell’atto sarebbe collegata alla maturità del feto.
    Dalle fonti ebraiche invece risulta chiaro che la punizione comminata è di natura meramente risarcitoria, ed il Midrash esclude la possibilità che venga attribuita la pena di morte in tale caso. Anche nella Mishnàh (Ohalot 7,6) e nel Talmud (ad es. Sanhedrin 57 b; 72 b; ‘Arakhin 7 a) risulta chiaro come la vita della madre abbia la precedenza rispetto a quella del feto, sino al momento in cui la maggior parte del feto viene alla luce, momento in cui la vita del feto acquisisce pari dignità rispetto a quella della madre. C’è da segnalare che la normativa è differente per i noachidi, per cui l’uccisione di un feto costituisce un omicidio, in base a Genesi 9,6, che viene letto nella Ghemarà in questo modo: “chi versa il sangue dell’uomo che è nell’uomo (ovvero il feto), il suo sangue verrà versato”3. Spiegando la Mishnàh in Ohalot R. Aqiva Egher prova che il motivo della distinzione non è solo quello tradizionale, che il feto viene considerato un rodef (persecutore) della vita della madre, ma anche il feto non è da considerarsi un individuo (nefesh)4.
    Alla luce di quanto detto, non si deve pensare che non ci sia alcun divieto nell’uccisione di un feto, ma solo che la sua uccisione non è paragonabile a quella di un individuo in vita. Tutti i poseqim infatti sono d’accordo che sia vietato uccidere un feto, o in base a fonti talmudiche, o in base al divieto esplicito per i noachidi, ma non si trovano d’accordo invece sulla gravità del divieto, se derivi dalla Toràh o sia di origine rabbinica, come d’altronde sul motivo del divieto. Alcuni sostengono che la gravità del divieto aumenti di pari passo con il grado di sviluppo del feto, ed in tal caso diverrebbe rilevante la domanda relativa al momento in cui l’anima viene posta nel corpo5.
    Le Tosafot (Sanhedrin 59 a) sostengono che è inammissibile che l’uccisione di un feto sia proibita ai noachidi e permessa agli ebrei. Questa opinione non è accettata dal Rambam, e le Tosafot sembrano contraddirsi in un altro passo (Niddàh 44 b).
    I poseqim hanno individuato vari motivi per giustificare il divieto: 1) omicidio o un divieto ad esso connesso; 2) danneggiamento della madre6; 3) derivazione dello spargimento di seme7; 4) distruzione di una vita potenziale; 5) danneggiamento di una costruzione divina8 e diminuzione dell’immagine divina9; 6) obbligo di salvare; 7) profanazione del nome divino, visto che il cristianesimo proibisce categoricamente l’aborto, l’ebraismo non può consentirlo; 8) immoralità; 9) rapina; 10) non si conosce il motivo del divieto10.
    Come segnalato, in passato la questione dell’aborto era collegata fondamentalmente alle condizioni di salute della madre, visto che quello del feto era ignoto. Per questo la domanda sulla possibilità di abortire a fronte di seri difetti del feto, individuabili grazie ai progressi tecnici degli ultimi anni, non era stata affrontata dai poseqim, che invece hanno dedicato grande attenzione alla questione negli ultimi anni, mostrando di volta in volta approcci più o meno facilitanti. Proprio per via di questa incertezza, di fronte ad una decisione così difficile, qualsiasi comportamento diviene accettabile in base ad una delle varie opinioni11.
    Bisogna segnalare inoltre che, al contrario di quanto scrive il Ramà12, al giorno d’oggi, visti i notevoli della scienza medica, è possibile affidarsi alle valutazioni dei medici13.
    Rav Waldenberg sostiene che in caso di patologie gravi quali la Tay Sachs14, non diagnosticabile prima del terzo mese di gravidanza, o la sindrome di Down15 l’aborto sia consentito sino al settimo mese. A suo parere il divieto, spargimento di seme invano, è di origine rabbinica, ed in caso di grande necessità è possibile facilitare. Nello specifico, vista la natura del divieto è consigliabile che sia un medico donna a praticare l’aborto. Rav Goren ritiene, vista la differenza di gravità delle malattie, l’una mortale nei primi anni di vita, l’altra con una speranza di vita inferiore alla media e limitazioni fisiche e mentali, che sia permesso interrompere la gravidanza per la Tay Sachs, ma non per la sindrome di Down.
    Rav ‘Ovadiàh Yosef16, sebbene ritenga che si tratti di un divieto della Toràh, permette di praticare l’aborto sino al terzo mese anche per patologie non gravi17.
    Rav Israeli è dell’idea che sia possibile operare l’aborto in presenza del sospetto dell’insorgenza di difetti nel feto derivanti da trattamenti farmacologici sostenuti dalla madre durante la gestazione. Secondo lui il motivo del divieto sarebbe il danneggiamento nei confronti della madre.
    Rav Weinberg crede che sia consentito praticare l’aborto qualora la madre sia stata colpita da rosolia durante la gestazione e vi sia il pericolo di danni per il feto. Secondo la sua visione il feto non è ancora considerabile un individuo, e pertanto è proibito praticare l’aborto solamente se non vi è un serio motivo per farlo. C’è da notare che in questo caso il difetto non è certo, e dipende statisticamente dal momento in cui la madre ha contratto la malattia: 50% se contratta al primo mese; 25% al secondo e così via.
    Rav Halperin18 è del parere che in questi casi l’interruzione di gravidanza sia consentita, perché il bambino gravemente malato, nonostante i trattamenti farmacologici e gli interventi chirurgici, non avrebbe una speranza di vita superiore ai venti anni. Questa speranza di vita, in base alla ghemarà nel trattato di Yevamot (80 a), consentirebbe di equipararlo ad un aborto (nefel), autorizzando pertanto l’interruzione di gravidanza.
    Nello stesso caso Rav Hunterman ha proibito di praticare l’aborto, trattandosi di una forma di omicidio. In particolare è illogico in tal caso consentire l’aborto, perché serve a tranquillizzare i genitori, perché non avrebbe senso uccidere il feto per evitargli un danno.
    Rav Feinstein19, Rav Auerbach ed altri vietano la pratica anche per malattie come la Tay Sachs e la sindrome di Down, perché il feto è paragonabile ad un individuo già nato in tutto e per tutto. L’unico caso in cui l’aborto è consentito è quando il feto mette in serio pericolo la vita della madre. Per questo Rav Feinsten non permette persino i controlli prenatali per diagnosticare la Thai Sachs, perché, essendo proibito in ogni caso abortire, sarebbe inutile conoscere il responso prima della nascita. In un altro passo20 Rav Feinstein proibisce la pratica dell’aborto anche quando i medici sostengono che la speranza di vita sia minima, perché tramite la nascita si ottiene la resurrezione alla fine dei giorni. Su questo punto Rav Waldenberg21 criticò aspramente Rav Feinstein, che avrebbe basato la propria opinione su un testo di natura haggadica (Sanhedrin 110 b) sul momento nel quale un minore ottiene l’accesso al mondo futuro, escludendo l’ipotesi, riportata nel Talmud, che ciò possa avvenire già al momento del concepimento.
    Anche secondo i poseqim più rigorosi tuttavia è possibile praticare l’aborto a fronte di possibilità di sopravvivenza del feto vicine allo zero. Questa è ad esempio l’opinione di Rav Zilberstein in un caso di anencefalia. Anche Rav Halperin, sebbene abbia un approccio rigoroso, permette la pratica dell’aborto nel caso di malformazioni cardiache congenite gravi.
    Fra i più rigorosi alcuni, ad esempio Rav Goren, permettono la pratica dell’aborto qualora la nascita di un bambino malato gravemente comporti gravi danni psicologici alla madre. Rav Zilberstein permette in presenza di avvisaglie di suicidio della madre.
    Concludendo la propria disamina Rav Zuriel22 riporta due ragionamenti molto importanti per districarsi nella varietà di opinioni espresse sul tema:
    a) Riporta un insegnamento di Rav Quq23 secondo il quale in questi casi non è applicabile il criterio della maggioranza, perché non è possibile stabilirla con certezza, e questo criterio si applica unicamente quando i sostenitori delle varie opinioni vengono riuniti come all’interno del Sinedrio, ed in particolare ciò è vero quando i sostenitori di una certa opinione la giustificano in maniera differente.
    b) In molti casi, ed in questo in particolare, l’opinione che permette ha maggiore forza, in base alla ghemarà in Betzàh (2 b) ed al commento di Rashì, che sostiene che chi permette ha maggiore fiducia negli insegnamenti ricevuti, senza temere di permettere, mentre chi proibisce ha minore forza, perché chiunque può essere rigoroso, persino rispetto a ciò che sarebbe permesso.

    Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino

    conferenza Torah e Scienza, Torino, 16 novembre 2014
    (un estratto dell’intervento appare sul numero di Pagine Ebraiche di Gennaio)

    da qui

    https://moked.it/blog/2014/12/27/lhalakhah...one-dellaborto/
     
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