Ebraismo e aborto (problemi di Halachah contemporanea)

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    Problemi di Halakhah contemporanea
    di Rav Roberto Colombo
    su Shalom.it

    Domanda: si presentò in un ospedale di Gerusalemme una donna che dichiarò in un perfetto ebraico di voler abortire non avendo sufficienti mezzi economici per poter crescere con serenità il proprio bambino. Gli addetti dell'ospedale fecero di tutto per convincere la donna a portare avanti comunque la gravidanza. Misero inoltre in contatto la signora con un'associazione ebraica che aiutava le mamme in difficoltà economica offrendo a queste un'occupazione e pure del denaro in tzedaká. Grazie a tali promesse d'aiuto la donna si decise a non abortire. Quando presentò i propri documenti, si scoprì però che quella signora non era ebrea. Furono poste quindi due domande ad un Tribunale Rabbinico locale: vi è l'obbligo rabbinico di cercare di convincere anche una non ebrea a non abortire? L'associazione che si è impegnata a trovare un lavoro alla donna e a darle del denaro in tzedaká, è tenuta a mantenere i propri impegni?



    Risposta: Il Tribunale Rabbinico scrisse: "È detto nella Parashá di Noach riguardo all'intera umanitá: colui che versa il sangue di un essere umano che si trova in un essere umano, il suo sangue verrà a sua volta versato (Gen. 9, 6). Da tali parole s'impara che ad ogni donna, ebrea e non ebrea, è assolutamente proibito dalla Torá scritta e dalla Torá orale abortire - se non in caso reale di pericolo per la madre. Pertanto è un obbligo dato ad ogni ebreo quello di cercare di convincere anche un Gentile a non abortire in quanto il volere di D-o è che a nessun essere umano sia usata violenza. Nel Sèfer Chasidìm è detto che se si vede anche un non ebreo trasgredire ad un volere divino dato all'Umanità intera, si deve cercare di convincere il colpevole a non peccare. Per tal motivo il Profeta Yoná fu mandato a Ninive per insegnare agli abitanti non ebrei che vi abitavano il giusto comportamento da seguire. Perciò, ha fatto bene l'ospedale a provare a convincere la donna non ebrea a non interrompere la gravidanza e in tal modo dovrá comportarsi anche in futuro. Sentito anche il parere di Rav Zilbershtein, s'invita inoltre l'associazione benefica ad aiutare come promesso la madre in questione offrendo alla stessa un aiuto economico e un lavoro in modo che la donna possa portare avanti la sua gravidanza e crescere il proprio figlio".

    Edited by leviticus - 15/5/2019, 19:03
     
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    Vedi anche qui:

    www.morasha.it/zehut/sb01_aborto.html

    Articolo di Scialom Bahbout
    Professore di fisica all'Università di Roma. Fondatore del Dac dell'Unione delle Comunità Ebraiche. Rabbino al "Tempio dei Giovani" di Roma.


    Nel dibattito sulla 194, poco rilievo è stato dato a posizioni diverse da quella della Chiesa? Anche se le norme della legge ebraica si applicano solo a una piccola minoranza, può esser interessante descrivere le linee essenziali sia del comportamento cui dovrebbe conformarsi un ebreo, sia più in generale delle implicazioni del concetto di diritto alla vita del feto.

    Innanzitutto, il ricorso all'aborto può essere circoscritto se la donna fa uso, secondo norme precise, dei metodi contraccettivi consentiti dalla legge ebraica (per esempio la pillola). Se la prosecuzione della gravidanza mette in pericolo la vita della madre, è doveroso intervenire per salvarla; infatti, a differenza di quella della madre, la vita del feto è ancora da ritenersi dubbia. L'uomo non è padrone del suo corpo: quindi "Io sono mia" non è un'affermazione compatibile con il pensiero e la legge ebraica. Da qui la necessità per la donna di interpellare un'autorità rabbinica competente che, dopo averla ascoltata ed essersi consultata con un medico, deciderà caso per caso. L'autorità interpellata ha il dovere di salvaguardare la vita del feto, ma compatibilmente con la salute psicofisica della madre.

    Ma il potere morale, per parlare di diritto alla vita del feto, si acquisisce dimostrando di rispettare in concreto la vita dell'uomo; il diritto alla vita del feto potrà essere meglio salvaguardato se prima si saranno create le condizioni per salvaguardare il diritto alla vita di quanti sono già nati.

    Non mi sembra abbiano questo potere coloro che hanno ispirato la propria azione a ideologie idolatrie totalitarie che sono state la causa prima delle camere a gas e dei gulag: il Fascismo, il Nazismo e il Comunismo di Stato. Prima di parlare di diritto alla vita, gli eredi di quelle ideologie aberranti devono fare un esame di coscienza e rinnegare il proprio passato, per poter poi iniziare una seria autoeducazione al rispetto della vita di ogni uomo, indipendentemente dalla religione che professa, dalle idee che ha e dal colore della sua pelle. Secondo l'Ebraismo, questo scopo si raggiunge attenendosi a procedure precise che non consentono scorciatoie e che hanno bisogno di tempi lunghi e di una continua verifica.

    Ma il concetto di diritto alla vita ha altre importanti implicazioni. Nel corso dei secoli la Chiesa e molte fra le culture che si sono ispirate all’insegnamento cristiano, hanno negato il valore alla vita umana in quanto espressione di modi diversi di esprimere la propria umanità; superati e condannati i metodi dell’Inquisizione rimane irrisolto il nodo dell’evangelizzazione e della politica conversionistica, che rappresenta la negazione totale del concetto del diritto ad esprimere il proprio senso della vita, dell’accettazione dell’altro, del diverso, così com’è senza malcelati rimpianti per la sua mancata conversione.

    È pur vero che con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha iniziato un processo di revisione nei confronti del popolo ebraico; tuttavia, le vicende degli ultimi tempi sembrano chiaramente dimostrare che sarà necessario ancora molto tempo perché le nuove idee possano veramente trovare applicazione nella quotidianità e radicarsi nei cuori cristiani.

    Il problema non riguarda tanto il popolo ebraico che ha alle spalle secoli di resistenze alle lusinghe conversionistiche. La Chiesa si prepara infatti ad aprire il terzo millennio con un ampio programma di evangelizzazione di popoli che esprimono antiche civiltà, diverse da quella cristiana, spingerli alla conversione, spesso mascherata o edulcorata con il mantenimento di alcuni usi locali, espropriarli della propria cultura per colonizzarli, non è un’azione che va nel senso del riconoscimento del diritto ad esprimere il proprio senso della vita, ma piuttosto nella direzione opposta.

    La molteplicità delle culture e la diversità sono un segno di ricchezza.

    All’uomo moderno spetta il compito di combattere le politiche espansionistiche che tendono a cancellare le caratteristiche peculiari di importanti civiltà, per imporre modelli culturali dell’Occidente cristiano: la sopravvivenza dei Vatussi o delle tribù dell’Amazzonia è forse obiettivo meno importante della salvaguardia del panda?

    La Repubblica 1995
     
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    Anche qui in un articolo di Ariel di porto ex rabbino capo di Torino

    http://moked.it/blog/2014/12/27/lhalakhah-...one-dellaborto/


    I progressi tecnici degli ultimi decenni in numerosissimi campi hanno determinato l’insorgere di nuove problematiche con le quali la Halakhàh non si era precedentemente confrontata. Per esempio la possibilità di prevedere delle malattie genetiche a carico di un feto con un sufficiente grado di attendibilità è una conquista scientifica relativamente recente, e pertanto i poseqim si sono espressi diffusamente negli ultimi anni circa la possibilità di praticare in questi casi l’aborto. In precedenza l’ottica era rovesciata, e tale domanda, non avendo informazioni certe in merito, non era rilevante, mentre si concentrava la propria attenzione sullo stato di salute della madre, qualora la gravidanza costituisse un pericolo per lei. Qualsiasi altra giustificazione, di natura economica, lavorativa, o estetica, non viene contemplata dalla Halakhà2.
    L’omicidio è considerato uno dei peccati maggiormente gravi, ed è uno dei tre peccati in cui si afferma il principio yehareg we-al ya’avor (si faccia uccidere piuttosto che trasgredire). Tale concetto si trova sullo sfondo di qualsiasi trattazione sull’aborto.
    Nella legislazione ebraica il feto ha uno status intermedio: sotto vari punti di vista (p.e. eredità, leggi di purità) il feto non costituisce un individuo (nefesh), tanto da essere considerato sotto certi aspetti una parte del corpo della madre, ma sotto altri punti di vista (p.e. la trasgressione del sabato per salvarlo) è considerabile come un individuo a pieno titolo.
    Nella Toràh si parla dell’aborto in Es. 21,22-23: “se alcuni venissero a rissa e l’uno di loro urtasse una donna incinta in modo da farla abortire senz’altro danno, egli sarà condannato a pagare quell’ammenda che il marito della donna incinta avrà richiesto e i giudici avranno approvato, se invece la moglie morrà farai pagare corpo per corpo”.
    C’è da notare che in fonti ebraiche non halakhiche, probabilmente sotto l’influenza della tradizione dei Settanta, questi versi si riferirebbero all’aborto come un omicidio, e la gravità dell’atto sarebbe collegata alla maturità del feto.
    Dalle fonti ebraiche invece risulta chiaro che la punizione comminata è di natura meramente risarcitoria, ed il Midrash esclude la possibilità che venga attribuita la pena di morte in tale caso. Anche nella Mishnàh (Ohalot 7,6) e nel Talmud (ad es. Sanhedrin 57 b; 72 b; ‘Arakhin 7 a) risulta chiaro come la vita della madre abbia la precedenza rispetto a quella del feto, sino al momento in cui la maggior parte del feto viene alla luce, momento in cui la vita del feto acquisisce pari dignità rispetto a quella della madre. C’è da segnalare che la normativa è differente per i noachidi, per cui l’uccisione di un feto costituisce un omicidio, in base a Genesi 9,6, che viene letto nella Ghemarà in questo modo: “chi versa il sangue dell’uomo che è nell’uomo (ovvero il feto), il suo sangue verrà versato”3. Spiegando la Mishnàh in Ohalot R. Aqiva Egher prova che il motivo della distinzione non è solo quello tradizionale, che il feto viene considerato un rodef (persecutore) della vita della madre, ma anche il feto non è da considerarsi un individuo (nefesh)4.
    Alla luce di quanto detto, non si deve pensare che non ci sia alcun divieto nell’uccisione di un feto, ma solo che la sua uccisione non è paragonabile a quella di un individuo in vita. Tutti i poseqim infatti sono d’accordo che sia vietato uccidere un feto, o in base a fonti talmudiche, o in base al divieto esplicito per i noachidi, ma non si trovano d’accordo invece sulla gravità del divieto, se derivi dalla Toràh o sia di origine rabbinica, come d’altronde sul motivo del divieto. Alcuni sostengono che la gravità del divieto aumenti di pari passo con il grado di sviluppo del feto, ed in tal caso diverrebbe rilevante la domanda relativa al momento in cui l’anima viene posta nel corpo5.
    Le Tosafot (Sanhedrin 59 a) sostengono che è inammissibile che l’uccisione di un feto sia proibita ai noachidi e permessa agli ebrei. Questa opinione non è accettata dal Rambam, e le Tosafot sembrano contraddirsi in un altro passo (Niddàh 44 b).
    I poseqim hanno individuato vari motivi per giustificare il divieto: 1) omicidio o un divieto ad esso connesso; 2) danneggiamento della madre6; 3) derivazione dello spargimento di seme7; 4) distruzione di una vita potenziale; 5) danneggiamento di una costruzione divina8 e diminuzione dell’immagine divina9; 6) obbligo di salvare; 7) profanazione del nome divino, visto che il cristianesimo proibisce categoricamente l’aborto, l’ebraismo non può consentirlo; 8) immoralità; 9) rapina; 10) non si conosce il motivo del divieto10.
    Come segnalato, in passato la questione dell’aborto era collegata fondamentalmente alle condizioni di salute della madre, visto che quello del feto era ignoto. Per questo la domanda sulla possibilità di abortire a fronte di seri difetti del feto, individuabili grazie ai progressi tecnici degli ultimi anni, non era stata affrontata dai poseqim, che invece hanno dedicato grande attenzione alla questione negli ultimi anni, mostrando di volta in volta approcci più o meno facilitanti. Proprio per via di questa incertezza, di fronte ad una decisione così difficile, qualsiasi comportamento diviene accettabile in base ad una delle varie opinioni11.
    Bisogna segnalare inoltre che, al contrario di quanto scrive il Ramà12, al giorno d’oggi, visti i notevoli della scienza medica, è possibile affidarsi alle valutazioni dei medici13.
    Rav Waldenberg sostiene che in caso di patologie gravi quali la Tay Sachs14, non diagnosticabile prima del terzo mese di gravidanza, o la sindrome di Down15 l’aborto sia consentito sino al settimo mese. A suo parere il divieto, spargimento di seme invano, è di origine rabbinica, ed in caso di grande necessità è possibile facilitare. Nello specifico, vista la natura del divieto è consigliabile che sia un medico donna a praticare l’aborto. Rav Goren ritiene, vista la differenza di gravità delle malattie, l’una mortale nei primi anni di vita, l’altra con una speranza di vita inferiore alla media e limitazioni fisiche e mentali, che sia permesso interrompere la gravidanza per la Tay Sachs, ma non per la sindrome di Down.
    Rav ‘Ovadiàh Yosef16, sebbene ritenga che si tratti di un divieto della Toràh, permette di praticare l’aborto sino al terzo mese anche per patologie non gravi17.
    Rav Israeli è dell’idea che sia possibile operare l’aborto in presenza del sospetto dell’insorgenza di difetti nel feto derivanti da trattamenti farmacologici sostenuti dalla madre durante la gestazione. Secondo lui il motivo del divieto sarebbe il danneggiamento nei confronti della madre.
    Rav Weinberg crede che sia consentito praticare l’aborto qualora la madre sia stata colpita da rosolia durante la gestazione e vi sia il pericolo di danni per il feto. Secondo la sua visione il feto non è ancora considerabile un individuo, e pertanto è proibito praticare l’aborto solamente se non vi è un serio motivo per farlo. C’è da notare che in questo caso il difetto non è certo, e dipende statisticamente dal momento in cui la madre ha contratto la malattia: 50% se contratta al primo mese; 25% al secondo e così via.
    Rav Halperin18 è del parere che in questi casi l’interruzione di gravidanza sia consentita, perché il bambino gravemente malato, nonostante i trattamenti farmacologici e gli interventi chirurgici, non avrebbe una speranza di vita superiore ai venti anni. Questa speranza di vita, in base alla ghemarà nel trattato di Yevamot (80 a), consentirebbe di equipararlo ad un aborto (nefel), autorizzando pertanto l’interruzione di gravidanza.
    Nello stesso caso Rav Hunterman ha proibito di praticare l’aborto, trattandosi di una forma di omicidio. In particolare è illogico in tal caso consentire l’aborto, perché serve a tranquillizzare i genitori, perché non avrebbe senso uccidere il feto per evitargli un danno.
    Rav Feinstein19, Rav Auerbach ed altri vietano la pratica anche per malattie come la Tay Sachs e la sindrome di Down, perché il feto è paragonabile ad un individuo già nato in tutto e per tutto. L’unico caso in cui l’aborto è consentito è quando il feto mette in serio pericolo la vita della madre. Per questo Rav Feinsten non permette persino i controlli prenatali per diagnosticare la Thai Sachs, perché, essendo proibito in ogni caso abortire, sarebbe inutile conoscere il responso prima della nascita. In un altro passo20 Rav Feinstein proibisce la pratica dell’aborto anche quando i medici sostengono che la speranza di vita sia minima, perché tramite la nascita si ottiene la resurrezione alla fine dei giorni. Su questo punto Rav Waldenberg21 criticò aspramente Rav Feinstein, che avrebbe basato la propria opinione su un testo di natura haggadica (Sanhedrin 110 b) sul momento nel quale un minore ottiene l’accesso al mondo futuro, escludendo l’ipotesi, riportata nel Talmud, che ciò possa avvenire già al momento del concepimento.
    Anche secondo i poseqim più rigorosi tuttavia è possibile praticare l’aborto a fronte di possibilità di sopravvivenza del feto vicine allo zero. Questa è ad esempio l’opinione di Rav Zilberstein in un caso di anencefalia. Anche Rav Halperin, sebbene abbia un approccio rigoroso, permette la pratica dell’aborto nel caso di malformazioni cardiache congenite gravi.
    Fra i più rigorosi alcuni, ad esempio Rav Goren, permettono la pratica dell’aborto qualora la nascita di un bambino malato gravemente comporti gravi danni psicologici alla madre. Rav Zilberstein permette in presenza di avvisaglie di suicidio della madre.
    Concludendo la propria disamina Rav Zuriel22 riporta due ragionamenti molto importanti per districarsi nella varietà di opinioni espresse sul tema:
    a) Riporta un insegnamento di Rav Quq23 secondo il quale in questi casi non è applicabile il criterio della maggioranza, perché non è possibile stabilirla con certezza, e questo criterio si applica unicamente quando i sostenitori delle varie opinioni vengono riuniti come all’interno del Sinedrio, ed in particolare ciò è vero quando i sostenitori di una certa opinione la giustificano in maniera differente.
    b) In molti casi, ed in questo in particolare, l’opinione che permette ha maggiore forza, in base alla ghemarà in Betzàh (2 b) ed al commento di Rashì, che sostiene che chi permette ha maggiore fiducia negli insegnamenti ricevuti, senza temere di permettere, mentre chi proibisce ha minore forza, perché chiunque può essere rigoroso, persino rispetto a ciò che sarebbe permesso.

    Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino

    conferenza Torah e Scienza, Torino, 16 novembre 2014
    (un estratto dell’intervento appare sul numero di Pagine Ebraiche di Gennaio)
     
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    In nessun commento è citato il caso in cui la gravidanza sia una conseguenza di una violenza.
    Sarebbe interessante capire cosa ritiene l'ebraismo in questi casi.
     
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    Dal sito www.romaebraica.it si dice in questo pdf

    www.google.com/url?sa=t&source=web...d=1557941730494

    Che secondo alcune autorità l aborto sarebbe consentito in questo caso mentre secondo alcune altre no
     
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    Come al solito mille opinioni diverse.
     
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    Questo intervento di Rav Disegni riguarda più la fecondazione assistita che l'aborto, ma mi sembra molto interessante




    L’embrione – uomo

    Pubblicato il ‍‍31 Luglio 2008 su Moked

    L’embrione non può essere paragonato ad un uomo

    Rav Riccardo Di Segni spiega che la piena capacità giuridica del feto si ottiene solo al momento della nascita

    Qual è la posizione ebraica sulla fecondazione assistita?

    Sul tema della fecondazione assistita e sulle numerose tecniche di inseminazione vi sono molte opinioni che si complicano poi con problematiche ebraiche specifiche. Non c’è infatti solo un problema di cosa fare prima della fecondazione, ma anche un problema del ‘dopo’ la fecondazione: esiste cioè non solo il problema di decidere se la procedura è eticamente lecita, ma anche di stabilire, una volta che la procedura sia stata fatta, chi sono i genitori. Per una serie numerosa di regole ebraiche (i rapporti con le mizvot, il diritto ereditario, il nome che una persona porta, i doveri specifici dei cohanim, la proibizione dell’incesto, il divieto dell’adulterio) è assolutamente necessario sapere chi è colui che nasce da una fecondazione assistita.
    La maggioranza delle autorità rabbiniche consente il ricorso alla fecondazione assistita quando esistono problemi altrimenti insolubili di sterilità della coppia. Questo però deve avvenire con delle garanzie assolute: per esempio il controllo che nella procedura non intervengano elementi esterni alla coppia. Deve essere il seme del marito e l’ovulo della moglie.
    Un’altra indicazione importante che sta emergendo negli ultimi tempi è la possibilità di ricorrere alla fecondazione assistita non solo in casi di sterilità ma anche dove esistano problemi di gravi malattie ereditarie di cui entrambi i genitori possono essere portatori. Quando esiste un problema del genere la fecondazione assistita può essere una soluzione, ma questo solo in casi notevolmente e accuratamente selezionati.

    Per quali motivi non viene invece ammessa la fecondazione eterologa?

    L’ipotesi di fecondazione eterologa, ovvero con il seme di un donatore esterno, per principio viene considerata una tecnica eticamente non ottimale. Ma questo non è sufficiente a far considerare la fecondazione con il seme di un altro uomo come un adulterio vero e proprio. Cosa è infatti ciò che definisce l’adulterio? Il rapporto sessuale o il seme che feconda l’ovulo? La creatura che nasce da una inseminazione eterologa sarà considerata con i rigori del mamzer (impropriamente tradotto come “bastardo”), oppure no? Abbiamo su questo argomento fonti molto particolari che citano casi di gravidanze realizzatesi senza rapporti sessuali (ad esempio il caso di Ben Sirà) che in generale orienterebbero a dire che ciò che definisce l’adulterio in termini rigorosi è il rapporto sessuale e non il semplice passaggio del liquido seminale nell’utero, anche se non appartiene a quello del marito.
    La maggioranza delle autorità rabbiniche non consente la fecondazione eterologa perché, anche se tecnicamente non si può configurare come un adulterio, in realtà è una procedura che interviene in maniera decisiva a spezzare in qualche modo l’unità psicologica, morale e spirituale della coppia, introducendo un elemento esterno. Anche tutte le problematiche psicologiche che ne possono derivare e che riguardano il donatore, la donatrice, i genitori e il prodotto di questa procedura sono importanti e vanno rispettate. Per questo motivo l’orientamento generale è di dire no.
    La complessità delle situazioni che possono nascere dalla procedura della fecondazione eterologa ne fanno praticamente un argomento considerato molto negativamente.

    Come è compatibile la fecondazione eterologa con la necessità di sapere chi è il padre genetico per evitare casi di relazioni proibite?

    Bisogna soffermarsi sul problema del donatore. Se il donatore è un ebreo, paradossalmente ciò crea enormi complessità giuridiche. Se invece il donatore è un non ebreo vi sono meno difficoltà e vi sarebbero, secondo alcuni, le possibilità di permetterlo. Alcune autorità rabbiniche contemporanee consentono la fecondazione eterologa con seme sicuramente di un non ebreo e questo deriva fondamentalmente dal principio che nei rapporti tra ebrei e non ebrei vi è la trasmissibilità dell’ebraismo solo per via femminile.

    E’ ammessa la selezione degli embrioni a fini terapeutici?

    Il popolo ebraico si trova in una situazione molto difficile perché esistono gruppi familiari portatori di gravi malattie ereditarie. Quando esistono coppie in cui i genitori sono portatori di gravi malattie genetiche può essere che l’unico modo per consentire loro di procreare un bambino sano sia quello della selezione extracorporea di embrioni fecondati, anche se il termine embrione è un po’ esagerato. In questi casi la legge ebraica consente la selezione e l’impianto dei soli embrioni considerati sani.
    Questo tipo di autorizzazione si riferisce solo a questi casi particolari. Non si estende assolutamente ad altri tipi di selezione eugenetica, se si vuole un figlio maschio, se si vuole una figlia femmina, con i capelli rossi o con i capelli neri. Tutti questi discorsi sono assolutamente esclusi, è valido soltanto il problema delle malattie ereditarie.

    Gli embrioni non utilizzati possono essere congelati?

    Gli embrioni in eccesso possono essere congelati.


    Ci sono limiti riguardo all’età della madre?

    Su questo attualmente c’è una riflessione, non ci sono opinioni decisive anche perché gli esempi biblici sono strani ma non vincolanti. Oltre all’esempio di Sara c’è anche la madre di Mosè: la tradizione dice che era molto anziana quando lo partorì. Come dire….. non ci sono limiti alla provvidenza divina. Oggi diciamo che la mentalità, il modo di pensare attuale tenderebbe a considerare negativamente questa possibilità, ma di fronte a questi esempi biblici una risposta decisiva non c’è ancora.

    Che uso si può fare degli embrioni congelati? E’ ammessa la sperimentazione scientifica?

    In linea di massima se un embrione – ma si parla di fasi iniziali di sviluppo, sotto i 40 giorni dal momento della fecondazione – è in vitro, cioè fuori dal corpo umano e non può essere utilizzato per l’impianto nel grembo materno, si può utilizzare questo embrione soprannumerario e ormai, inutile dal punto di vista della fecondazione inutile, per scopi di ricerca scientifica. Il bilancio è tra il valore giuridico di questo embrione non più utile da una parte e le possibilità enormi della ricerca scientifica in campo medico e le conseguenti prospettive di guarigione dall’altra. Fatto questo bilancio in genere si conclude positivamente, autorizzando la ricerca sulle linee cellulari che provengono da questo tipo di embrioni. Così come è consentito utilizzare per la ricerca le cellule embrionali ottenute da feti abortiti all’inizio della gravidanza; non autorizzando l’aborto, ma se l’aborto c’è stato si possono utilizzare questo tipo di cellule.

    L’embrione ha gli stessi diritti di un individuo già nato? Quando inizia l’esistenza? Quando l’embrione acquisisce uno status?

    Intanto la legge ebraica prevalentemente non parla di diritti ma di doveri. Non c’è il diritto alla proprietà ma c’è il divieto del furto, non c’è il diritto alla vita ma c’è il divieto di uccidere. Quella che in termini giuridici moderni viene chiamata “capacità giuridica” di un essere umano secondo la legge ebraica viene acquisita solo al momento della nascita. Non vuol dire però che prima della nascita non si abbiano doveri.
    Per le situazioni prima della nascita si doveri inferiori a quelli dell’essere umano venuto alla luce del sole. Il livello di doveri degli embrioni di cui stiamo parlando è quello più basso possibile, nel senso che sono potenzialmente degli esseri viventi, ma soltanto molto potenzialmente.
    Ci sono due condizioni che associate insieme riducono i diritti: la fase di crescita, inferiore a 40 giorni, e soprattutto il fatto che tutto il processo di fecondazione assistita si svolge al di fuori del corpo umano. Se fosse un embrione o un preembrione all’interno del corpo umano avrebbe ben altri diritti. Nel momento in cui è così precoce e sta fuori del corpo umano la sua protezione giuridica è minima.
    La legge ebraica rispetta la vita fin dalle origini, anche dalla fase del liquido seminale, ma è il livello di rispetto che viene dato che varia a seconda delle circostanze e del tempo. Il pieno rispetto si acquisisce nel momento della nascita. E’ a quel punto che si ha vita per vita; prima non è vita completa, è in potenza.

    (Per gentile concessione del mensile ‘Shalom’ che l’ha realizzata con il contributo dei curatori del programma televisivo ‘Sorgente di Vita’)
     
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    L’Halakhah e la questione dell’aborto
    Pubblicato in Attualità il ‍‍27/12/2014 - 5 טבת 5775
    rav di portoI progressi tecnici degli ultimi decenni in numerosissimi campi hanno determinato l’insorgere di nuove problematiche con le quali la Halakhàh non si era precedentemente confrontata. Per esempio la possibilità di prevedere delle malattie genetiche a carico di un feto con un sufficiente grado di attendibilità è una conquista scientifica relativamente recente, e pertanto i poseqim si sono espressi diffusamente negli ultimi anni circa la possibilità di praticare in questi casi l’aborto. In precedenza l’ottica era rovesciata, e tale domanda, non avendo informazioni certe in merito, non era rilevante, mentre si concentrava la propria attenzione sullo stato di salute della madre, qualora la gravidanza costituisse un pericolo per lei. Qualsiasi altra giustificazione, di natura economica, lavorativa, o estetica, non viene contemplata dalla Halakhà2.
    L’omicidio è considerato uno dei peccati maggiormente gravi, ed è uno dei tre peccati in cui si afferma il principio yehareg we-al ya’avor (si faccia uccidere piuttosto che trasgredire). Tale concetto si trova sullo sfondo di qualsiasi trattazione sull’aborto.
    Nella legislazione ebraica il feto ha uno status intermedio: sotto vari punti di vista (p.e. eredità, leggi di purità) il feto non costituisce un individuo (nefesh), tanto da essere considerato sotto certi aspetti una parte del corpo della madre, ma sotto altri punti di vista (p.e. la trasgressione del sabato per salvarlo) è considerabile come un individuo a pieno titolo.
    Nella Toràh si parla dell’aborto in Es. 21,22-23: “se alcuni venissero a rissa e l’uno di loro urtasse una donna incinta in modo da farla abortire senz’altro danno, egli sarà condannato a pagare quell’ammenda che il marito della donna incinta avrà richiesto e i giudici avranno approvato, se invece la moglie morrà farai pagare corpo per corpo”.
    C’è da notare che in fonti ebraiche non halakhiche, probabilmente sotto l’influenza della tradizione dei Settanta, questi versi si riferirebbero all’aborto come un omicidio, e la gravità dell’atto sarebbe collegata alla maturità del feto.
    Dalle fonti ebraiche invece risulta chiaro che la punizione comminata è di natura meramente risarcitoria, ed il Midrash esclude la possibilità che venga attribuita la pena di morte in tale caso. Anche nella Mishnàh (Ohalot 7,6) e nel Talmud (ad es. Sanhedrin 57 b; 72 b; ‘Arakhin 7 a) risulta chiaro come la vita della madre abbia la precedenza rispetto a quella del feto, sino al momento in cui la maggior parte del feto viene alla luce, momento in cui la vita del feto acquisisce pari dignità rispetto a quella della madre. C’è da segnalare che la normativa è differente per i noachidi, per cui l’uccisione di un feto costituisce un omicidio, in base a Genesi 9,6, che viene letto nella Ghemarà in questo modo: “chi versa il sangue dell’uomo che è nell’uomo (ovvero il feto), il suo sangue verrà versato”3. Spiegando la Mishnàh in Ohalot R. Aqiva Egher prova che il motivo della distinzione non è solo quello tradizionale, che il feto viene considerato un rodef (persecutore) della vita della madre, ma anche il feto non è da considerarsi un individuo (nefesh)4.
    Alla luce di quanto detto, non si deve pensare che non ci sia alcun divieto nell’uccisione di un feto, ma solo che la sua uccisione non è paragonabile a quella di un individuo in vita. Tutti i poseqim infatti sono d’accordo che sia vietato uccidere un feto, o in base a fonti talmudiche, o in base al divieto esplicito per i noachidi, ma non si trovano d’accordo invece sulla gravità del divieto, se derivi dalla Toràh o sia di origine rabbinica, come d’altronde sul motivo del divieto. Alcuni sostengono che la gravità del divieto aumenti di pari passo con il grado di sviluppo del feto, ed in tal caso diverrebbe rilevante la domanda relativa al momento in cui l’anima viene posta nel corpo5.
    Le Tosafot (Sanhedrin 59 a) sostengono che è inammissibile che l’uccisione di un feto sia proibita ai noachidi e permessa agli ebrei. Questa opinione non è accettata dal Rambam, e le Tosafot sembrano contraddirsi in un altro passo (Niddàh 44 b).
    I poseqim hanno individuato vari motivi per giustificare il divieto: 1) omicidio o un divieto ad esso connesso; 2) danneggiamento della madre6; 3) derivazione dello spargimento di seme7; 4) distruzione di una vita potenziale; 5) danneggiamento di una costruzione divina8 e diminuzione dell’immagine divina9; 6) obbligo di salvare; 7) profanazione del nome divino, visto che il cristianesimo proibisce categoricamente l’aborto, l’ebraismo non può consentirlo; 8) immoralità; 9) rapina; 10) non si conosce il motivo del divieto10.
    Come segnalato, in passato la questione dell’aborto era collegata fondamentalmente alle condizioni di salute della madre, visto che quello del feto era ignoto. Per questo la domanda sulla possibilità di abortire a fronte di seri difetti del feto, individuabili grazie ai progressi tecnici degli ultimi anni, non era stata affrontata dai poseqim, che invece hanno dedicato grande attenzione alla questione negli ultimi anni, mostrando di volta in volta approcci più o meno facilitanti. Proprio per via di questa incertezza, di fronte ad una decisione così difficile, qualsiasi comportamento diviene accettabile in base ad una delle varie opinioni11.
    Bisogna segnalare inoltre che, al contrario di quanto scrive il Ramà12, al giorno d’oggi, visti i notevoli della scienza medica, è possibile affidarsi alle valutazioni dei medici13.
    Rav Waldenberg sostiene che in caso di patologie gravi quali la Tay Sachs14, non diagnosticabile prima del terzo mese di gravidanza, o la sindrome di Down15 l’aborto sia consentito sino al settimo mese. A suo parere il divieto, spargimento di seme invano, è di origine rabbinica, ed in caso di grande necessità è possibile facilitare. Nello specifico, vista la natura del divieto è consigliabile che sia un medico donna a praticare l’aborto. Rav Goren ritiene, vista la differenza di gravità delle malattie, l’una mortale nei primi anni di vita, l’altra con una speranza di vita inferiore alla media e limitazioni fisiche e mentali, che sia permesso interrompere la gravidanza per la Tay Sachs, ma non per la sindrome di Down.
    Rav ‘Ovadiàh Yosef16, sebbene ritenga che si tratti di un divieto della Toràh, permette di praticare l’aborto sino al terzo mese anche per patologie non gravi17.
    Rav Israeli è dell’idea che sia possibile operare l’aborto in presenza del sospetto dell’insorgenza di difetti nel feto derivanti da trattamenti farmacologici sostenuti dalla madre durante la gestazione. Secondo lui il motivo del divieto sarebbe il danneggiamento nei confronti della madre.
    Rav Weinberg crede che sia consentito praticare l’aborto qualora la madre sia stata colpita da rosolia durante la gestazione e vi sia il pericolo di danni per il feto. Secondo la sua visione il feto non è ancora considerabile un individuo, e pertanto è proibito praticare l’aborto solamente se non vi è un serio motivo per farlo. C’è da notare che in questo caso il difetto non è certo, e dipende statisticamente dal momento in cui la madre ha contratto la malattia: 50% se contratta al primo mese; 25% al secondo e così via.
    Rav Halperin18 è del parere che in questi casi l’interruzione di gravidanza sia consentita, perché il bambino gravemente malato, nonostante i trattamenti farmacologici e gli interventi chirurgici, non avrebbe una speranza di vita superiore ai venti anni. Questa speranza di vita, in base alla ghemarà nel trattato di Yevamot (80 a), consentirebbe di equipararlo ad un aborto (nefel), autorizzando pertanto l’interruzione di gravidanza.
    Nello stesso caso Rav Hunterman ha proibito di praticare l’aborto, trattandosi di una forma di omicidio. In particolare è illogico in tal caso consentire l’aborto, perché serve a tranquillizzare i genitori, perché non avrebbe senso uccidere il feto per evitargli un danno.
    Rav Feinstein19, Rav Auerbach ed altri vietano la pratica anche per malattie come la Tay Sachs e la sindrome di Down, perché il feto è paragonabile ad un individuo già nato in tutto e per tutto. L’unico caso in cui l’aborto è consentito è quando il feto mette in serio pericolo la vita della madre. Per questo Rav Feinsten non permette persino i controlli prenatali per diagnosticare la Thai Sachs, perché, essendo proibito in ogni caso abortire, sarebbe inutile conoscere il responso prima della nascita. In un altro passo20 Rav Feinstein proibisce la pratica dell’aborto anche quando i medici sostengono che la speranza di vita sia minima, perché tramite la nascita si ottiene la resurrezione alla fine dei giorni. Su questo punto Rav Waldenberg21 criticò aspramente Rav Feinstein, che avrebbe basato la propria opinione su un testo di natura haggadica (Sanhedrin 110 b) sul momento nel quale un minore ottiene l’accesso al mondo futuro, escludendo l’ipotesi, riportata nel Talmud, che ciò possa avvenire già al momento del concepimento.
    Anche secondo i poseqim più rigorosi tuttavia è possibile praticare l’aborto a fronte di possibilità di sopravvivenza del feto vicine allo zero. Questa è ad esempio l’opinione di Rav Zilberstein in un caso di anencefalia. Anche Rav Halperin, sebbene abbia un approccio rigoroso, permette la pratica dell’aborto nel caso di malformazioni cardiache congenite gravi.
    Fra i più rigorosi alcuni, ad esempio Rav Goren, permettono la pratica dell’aborto qualora la nascita di un bambino malato gravemente comporti gravi danni psicologici alla madre. Rav Zilberstein permette in presenza di avvisaglie di suicidio della madre.
    Concludendo la propria disamina Rav Zuriel22 riporta due ragionamenti molto importanti per districarsi nella varietà di opinioni espresse sul tema:
    a) Riporta un insegnamento di Rav Quq23 secondo il quale in questi casi non è applicabile il criterio della maggioranza, perché non è possibile stabilirla con certezza, e questo criterio si applica unicamente quando i sostenitori delle varie opinioni vengono riuniti come all’interno del Sinedrio, ed in particolare ciò è vero quando i sostenitori di una certa opinione la giustificano in maniera differente.
    b) In molti casi, ed in questo in particolare, l’opinione che permette ha maggiore forza, in base alla ghemarà in Betzàh (2 b) ed al commento di Rashì, che sostiene che chi permette ha maggiore fiducia negli insegnamenti ricevuti, senza temere di permettere, mentre chi proibisce ha minore forza, perché chiunque può essere rigoroso, persino rispetto a ciò che sarebbe permesso.

    Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino

    conferenza Torah e Scienza, Torino, 16 novembre 2014
    (un estratto dell’intervento appare sul numero di Pagine Ebraiche di Gennaio)

    da qui

    https://moked.it/blog/2014/12/27/lhalakhah...one-dellaborto/
     
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    LA SENTENZA DELLA CORTE SUPREMA USA SULL’ABORTO: COSA NE PENSA L’EBRAISMO ORTODOSSO. “NON TUTTO È PERMESSO E NON TUTTO È PROIBITO”. I PENSIERI RELIGIOSI NON SONO TUTTI UGUALI. - INTERVISTA AL RABBINO CAPO RICCARDO DI SEGNI

    28-06-2022 ARIELA PIATTELLI


    Sulla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di abolire la sentenza “Roe v. Wade” sull’aborto, abbiamo chiesto al Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni come l’ebraismo affronta questo tema e una riflessione sul rapporto delle istituzioni con le confessioni religiose.



    Che indicazioni ci da l’ebraismo su questa materia?



    Il primo dato da tener presente è che l’aborto è un evento negativo. La perdita di un feto è considerata una disgrazia. Vi sono delle condizioni nelle quali questa disgrazia può essere il male minore, a fronte di mali peggiori. Ed è il caso in cui bisogna scegliere tra il feto e la vita della madre, e la preferenza è per la madre. In tutte le altre situazioni c’è una discussione articolata e non c’è sempre unanimità. L’opinione prevalente è che si debba tutelare non solo la vita ma anche la salute fisica e mentale della madre messe a grave rischio da una gravidanza. Su alcune situazioni drammatiche come il riscontro di gravi malformazioni fetali le opinioni non sono unanimi. Se a seguito di uno stupro c’è una gravidanza indesiderata, c’è chi permette l’aborto.



    Quando si deve valutare un caso per prendere una decisione, chi è che lo fa nel mondo ebraico? Il parere della donna è rilevante?



    Essendo in gioco l’equilibrio mentale della madre il suo ruolo è decisivo. Teoricamente chi decide su questioni halakhiche è un’autorità rabbinica competente. Ma nelle nostre società le persone di solito decidono per conto loro e interrogano i rabbini solo per allargare l’orizzonte della valutazione. Talora succede che la domanda su come comportarsi riguardi solo il trattamento del feto (se vada sepolto ecc.) e non tutto quello che avviene prima.



    Quale è la posizione del mondo ebraico ortodosso sulla sentenza?



    Vi sono stati pronunciamenti da parte di organizzazioni rabbiniche ufficiali come l’Orthodox Union. Il concetto che hanno sottolineato è che questa decisione non li rallegra nè li rattrista. I sistemi legali sono differenti. Per sintetizzare, nell’ebraismo non tutti gli aborti sono permessi e non tutti sono proibiti. Certamente l’ebraismo ortodosso non accetta la posizione della totale libertà di decisione sostenuta ideologicamente da molti gruppi nè i rigori assoluti degli antiabortisti.



    Veniamo all’Italia. La Costituzione italiana regola i rapporti tra Stato e confessioni religiose che possono organizzarsi con i propri statuti. Tali rapporti sono regolati dalle intese. Che valenza ha l’Intesa tra Stato ed ebraismo italiano in questo senso?



    In generale ogni sistema giuridico (come quello dello Stato o quello della halakhà) può permettere, proibire o obbligare. Il conflitto tra i sistemi nasce ad esempio quando lo Stato obbliga a fare cose proibite (come trasgredire lo Shabbat) o proibisce comportamenti che noi siamo obbligati a fare (ad es. la circoncisione). Nel nostro caso la scelta di abortire non è un obbligo religioso, è una facoltà concessa in determinati casi. Per cui il conflitto tra sistemi è più delicato ed è difficile parlare di diritto religioso conculcato, come ha provato a fare negli Stati Uniti qualche organizzazione ebraica neppure tanto ortodossa. In Italia l’aborto è permesso e l’ebrea che vuole abortire o non abortire decide usando lo spazio di libertà concessole dalla legge. Se in Italia dovesse tornare il divieto in alcuni casi (come ora negli Stati Uniti) ci troveremmo in difficoltà ma sarebbe complicato invocare il diritto religioso. È un po’ quello che è successo con i referendum sulla procreazione assistita, in cui la legge proibisce cose a noi permesse (come la diagnosi preimpianto). In quel caso abbiamo fatto sentire la nostra voce (o meglio la nostra vocina) per rappresentare che non si può sempre parlare in nome della religione come se tutte le religioni la pensassero allo stesso modo.



    Il dialogo tra istituzioni e i rappresentati delle varie religioni può essere costruttivo o persino necessario?



    Certo che lo è. In particolare per due motivi. Il primo è che c’è una tendenza molto intollerante a criminalizzare qualsiasi pensiero religioso per il solo fatto che lo sia. Invece noi dobbiamo affermare il diritto alle nostre opinioni e alle nostre tradizioni e partecipare come ogni altro cittadino alla costruzione di un sistema comune. Noi portiamo ricchezza e saggezza e non vogliamo imporre. L’altro motivo per cui il nostro pensiero va fatto conoscere è che esiste una tendenziosa contrapposizione manichea tra religione e laicità dove per religione si intende quella cattolica. Anche se vi sono radici comuni e punti di incontro, il nostro pensiero non può essere omologato a quello di altri, come qualcuno sta tentando di fare. Mi sta bene dire che le religioni sono unite a tutelare gli indifesi. Ma quando c’è una donna incinta per aver subito una violenza chi è l’indifeso?



    Statement della Union of Orthodox Jewish Congregations of America sulla decisione della Corte Suprema
     
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    Per quanto concerne la Legge Noachide, la proibizione dell'omicidio comprende anche il divieto di uccidere i feti (cfr. Ghemara-Sanhedrin 57b, che richiama il testo di Genesi 9:6; il principio è codificato anche nel Mishneh Torah di Rambam -Hilchot Melachim 9:4);

    In base alla halakhah presente in Ghemara-Yevamot 69b, l'embrione entro quaranta giorni dal concepimento è considerato “semplice acqua”, e quindi non una “persona”; di conseguenza, appare lecito sul piano halachico che una donna goy, senza limitazioni, interrompa volontariamente la gravidanza entro il suddetto termine di quaranta giorni dal concepimento.

    Una volta superati i 40 giorni dal concepimento, l'unica ipotesi in cui la Legge Noachide consenta esplicitamente alla donna non ebrea di abortire è il caso in cui la prosecuzione della gravidanza metta in pericolo la vita della donna. Vi sono varie discussioni tra ai poskim circa il fatto se un concepimento derivante da uno stupro o l'accertamento di gravi malattie e/o deformazioni del feto possano legittimare per i Goym la pratica abortiva dopo i predetti 40 giorni, ma non vi sono vere basi halachiche per sostenere tale liceità; anzi, la circostanza che Rambam contempli quale fattispecie del divieto noachide di omicidio anche il caso dell'uccisione di una persona destinata comunque a morire ( v. sempre Hilchot Melachim 9:4) pone un serio ostacolo all'ipotesi di liceità per i Gentili di un aborto per gravi malattie e/o deformazioni del feto.

    P.S.: dopo aver letto con attenzione la sentenza della Corte Suprema degli USA ( 213 pagine, di cui 79 afferenti specificatamente alle motivazioni), mi sento di condividere, sul piano strettamente giuridico, la decisione assunta dai giudici, e cioè che la legalizzazione dell'aborto non è di per sé contraria alla Costituzione Statunitense, ma che ,nel contempo, l'aborto non è un diritto soggettivo costituzionale desumibile dall'ermeneutica della Costituzione Americana medesima.
     
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