Il “Peccato Originale” nell'Ebraismo

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    אילון

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    “Peccato Originale”
    Dante Lattes poster-il-peccato-originale-albero-con-la-mela

    Il problema centrale della parashah di Bereshith è quello che è stato chiamato il peccato originale. E’ stato affermato che « il Giudaismo non contiene alcun mito del peccato, che è un mito del fato, perchè i suoi profeti distrussero i rudimenti di un mito simile.
    Il Giudaismo non conosce il peccato originale, quell’episodio di cui l’uomo, quale mero oggetto, patisce gli effetti, Per il Giudaismo il peccato è il destino provocato dall’individuo allorché sconfessa se stesso e fa di se stesso un mero oggetto...
    L’Ebraismo non conosce nè peccato ereditario nè “peccato originale” (LEO BAECK, The Essence of Judaism, 1948, p. 161-21.)
    Di questo problema e del mito dell’albero della conoscenza del bene e del male e di quello della vita, narrato nel capitolo II della Genesi dove abbiamo detto che, secondo noi, il giardino di Eden è un orto figurato e simbolico col quale si volle rappresentare la vita senza problemi, ridente e spensierata della Umanità primitiva e dare rimmagine della beata età infantile d’ogni uomo e della puerizia degli antichi progenitori.
    I due alberi, il cui frutto era vietato all’uomo, devono rappresentare l’uno l’immortalità in confronto alla vita breve e caduca propria della sorte umana, l’altro la nozione di ciò che vi è d’impuro nella vita degli uomini, in confronto al candore dell’infanzia e all’innocenza, anzi all’incoscienza delle primitive età del genere umano.
    In Deuteronomio (I, 39) i bambini son descritti come coloro che « non sanno distinguere ciò che è bene e ciò che è male ». Che non si trattasse dell’acquisto dell’intelligenza, che prima i due protagonisti non avrebbero posseduto, è dimostrato dal fatto che essi erano creati ad immagine divina, cioè che erano dotati di ragione e di quelle capacità spirituali che sono proprie degli esseri ragionevoli.
    Che non si trattasse dell’improvvisa nascita dell’istinto sessuale è provato dalla struttura fisica provvista di organi riproduttivi che essi avevano e dall’obbligo fatto loro di « crescere e di moltiplicarsi e di empire la terra ». Secondo il grande commentatore medioevale Rashi (Rabbi Shelomoh) Izchaqì, 1040-1105), l'unione carnale di Adamo ed Èva ed il parto della donna (narrati in Genesi, IV, I) avrebbero preceduto il peccato e la conseguente cacciata dal giardino, poiché quel passo dev’essere tradotto dando ai verbi il significato di trapassato prossimo anziché di passato remoto.
    « Adamo aveva conosciuto Èva sua moglie, la quale aveva concepito ed aveva partorito Caino ». Sarebbe oltre a tutto assurdo pensare che, mentre Iddio aveva proclamato in forma solenne di voler creare un essere simile a Lui, ne fosse poi sortita una creatura priva di intelligenza alla quale, nonostante questo carattere negativo, Dio stesso poi avrebbe rivolto le sue esortazioni, i suoi ordini, i suoi divieti, come sarebbe illogico pensare che il peccato avesse procurato a quell’animale ribelle e stolto che era Adamo il dono dell’intelligenza che sola poteva renderlo simile a Dio;

    Aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene del male vuol dunque dire aver perduto la beata innocenza, la dolce ignoranza, (rappresenta il momento storico dello sviluppo della corteccia cerebrale superiore con
    conseguenza autocoscienza e conoscienza del bene e del male. N.d. Ayalon) l’ingenuo candore dell’età infantile.
    Come il giardino incantevole non è un vero giardino ma è la figura della vita spensierata e lieta, al pari. del dilettoso
    monte della Divina Commedia che è principio e camion di tutta gioia, così l’albero della conoscenza non è un albero vero e proprio, allo stesso modo che non erano animali di carne e d’ossa le tre fiere che impedivano a Dante il suo cammino, ma anziché essere cose esterne alicorno sono simboli di tendenze, di caratteri, di sentimenti dell’animo umano, di proprietà interne ed inerenti alla sua natura che il mito e l’allegoria esteriorizzano, personificandole. Con quell’allegoria si voleva rappresentare rincoercibile bisogno e la innata capacità che induce l’uomo a conoscere le cose e le leggi del mondo, la spinta che viene allo spirito umano dalla sua stessa natura a distinguere il bene dal male, la lotta in cui esso si trova impegnato e la sofferenza e l’infelicità che derivano poi da questa conoscenza
    E’ il problema che ha in ogni tempo occupato la mente ebraica intorno al dolore, allo scontento, all’inquietudine, e all'infelicità che accompagnano più o meno la vita umana in terra e dei quali gli altri esseri sono immuni. «Profonda filosofia, ricoperta di un velo mistico, concezione triste e cupa della natura, una specie di odio pessimista dell’Umanità » l’ha definita con eccessiva crudezza Renan (Hist. Il, p. 341). Giobbe, l’Ecclesiaste, alcune pagine di Geremia e alcuni canti dei Salmi sono un segno e un prodotto di questo attegiamento fra pessimista e inquieto dello spirito ebraico. Non sono però l’eco o la conseguenza del mitico peccato antico, di cui non ci sono più tracce in tutta la letteratura ebraica nè biblica nè post-biblica, ma sono una diretta considerazione delle sorti umane. « La tradizione ebraica conservò quelle pagine misteriose, senza darvi troppa importanza ». (RENAN, Hist., II, p. 359). Nel Koheleth (I, 18) è scritto: « Dov’è molta sapienza è molto affanno e chi accumula scienza, accumula dolore ». Conoscere è dunque soffrire, perchè l'uomo potrà riuscire a distinguere il bello dal brutto, il puro dall’impuro, ma non riuscirà mai a capire la ragione e il fine della vita e delle cose, e la sua sapienza sarà sempre limitata e insufficiente. « La sapienza è rimasta lontana da me — dice il sapiente Koheleth (VII, 24) —. A una cosa tanto remota e profonda chi ci può arrivare? ». E della ignota sede della sapiènza, che è conoscenza della sostanza e dei fini, parla anche Giobbe. Per cui quel primitivo barlume di intelletto che aveva permesso all'uomo di aver cognizione del proprio essere e del proprio stato, non può significare che l’aprirsi della ragione umana, dopo l'incoscienza e la ignoranza dell’infanzia, alle realtà della vita, alle fatiche, ai dolori, alla caducità delle cose terrestri.
    Ma il racconto della creazione dell’uomo reca un altro inestimabile ammaestramento di valore morale, sociale, politico, che gli antichi sapienti ebrei seppero già ricavare dal testo biblico. Essi osservano:
    « Dal fatto che non fu creato altro che un unico e solo uomo, dobbiamo imparare che, secondo la Scrittura, la distruzione di una sola persona equivale alla distruzione di un mondo intero e, al contrario, conservare in vita una persona sola equivale a mantenere in vita tutto un mondo. Colla creazione di un solo ed unico uomo si è voluto raggiungere anche un altro fine, quello della concordia umana, affinchè nessuno possa dire; «Mio padre è superiore al tuo» e nessuno possa vantare i meriti o le glorie dei propri antenati e non si abbia un motivo di più per le rivalità fra
    le famiglie, che anche cosi si verificano continuamente nelle società umane ». (TALMUD, Sanhedrin, 37-38’).
     
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    Bella, la considerazione finale del Talmud, che sembra fare come il banco che alla fine "piglia tutto"
     
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    Machshevet Israel
    Il peccato d’origine
    Pubblicato in Attualità il ‍‍13/05/2021 - 2 סיון 5781
    Non è raro sentirsi porre la domanda se il giudaismo abbia, o no, una dottrina del peccato originale (in riferimento alla trasgressione di Adamo ed Eva narrata in Bereshit/Gn 3). La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. No, non esiste una dottrina ebraica del peccato originale, se con questo concetto si intende la credenza che la prima coppia umana abbia commesso un atto peccaminoso metafisico e metastorico che ha reso ‘lapsa’ per sempre e per tutti la natura umana, caduta in uno status di perdizione tale da poter essere salvata soltanto da un atto di redenzione altrettanto metafisico e metastorico (è l’interpretazione cristiana classica). La tradizione ebraica non pensa che gli esseri umani nascano ‘macchiati’ da un peccato d’origine, non commesso personalmente ma ereditato dai loro avi, un peccato che esige una salvazione soprannaturale operata da un messia divinizzato o da un dio incarnato (il battesimo sarebbe un memoriale di siffatta salvazione). Tuttavia i maestri di Israele non hanno mai smesso di studiare e interpretare quel capitolo della Torà e di interrogarsi sui diversi significati nascosti, per così dire, nel racconto di quella trasgressione.
    Rabbi Shlomò ben Itzchaq, noto come Rashi, il più autorevole tra i commentatori ebrei medievali, esplora ad esempio la figura del serpente, animale altamente simbolico nelle culture antiche (come non ricordare l’episodio dei rettili del deserto, in Bemidbar/Nm 21,4-9, o i draghi babilonesi). Il serpente è ritratto come il più astuto degli animali, e dunque intellettualmente al di sopra degli stessi esseri umani, all’epoca ancora ignari di tutte le potenzialità positive e negative della creazione (il giardino in cui vivevano). Rashi ne fa emergere la ‘personalità’: concupisce ossia desidera unirsi alla donna; è abile nel linguaggio e sa portare argomenti convincenti e dotti (la conoscenza del bene e del male!); ha un piano di attacco, dice Rashi, per “assalire l’uomo e la donna” e forse prevede che il suo piano riuscirà… tanto è naïve l’essere umano. Con fantasia già il midrash lo aveva immaginato con i piedi, mentre discorre come un epicureo, calunniatore del Creatore e manipolatore della stessa parola divina. Ma tutto ciò, secondo i maestri, non esautora i due primi esseri umani dalla loro responsabilità, per non aver obbedito alla prima mitzwà loro affidata.
    Nella Guida dei perplessi (I,2) Maimonide offre quest’altra interpretazione: nell’Eden l’essere umano viveva nel più perfetto degli stati “perché disponeva del suo pensiero e dei suoi intellegibili”, di poco inferiore a Dio stesso, disinteressato alle cose frivole e ai piaceri materiali, lontano dalla bruttezza. “Ma quando si ribellò e inclinò verso i suoi istinti suggeritigli dalla sua fantasia e verso i piaceri corporei dettatigli dai sensi [Bereshit/Gn 3,6], egli venne punito con la privazione di quella comprensione intellettuale, e per questo disobbedì all’ordine che gli era venuto dal suo intelletto e, conseguita la comprensione delle opinioni probabili [=non necessarie], si dedicò a dare giudizi sul bello e sul brutto”. Qui il serprente diviene una fantasia, uscita dalla facoltà d’immaginazione umana mossa dai cinque sensi, il grado più basso della conoscenza; il peccato non sarebbe che un cedere alla propria cattiva inclinazione, lo yetzer ra‘ dell’antropologia rabbinica. La coscienza abbandona così il livello cognitivo della verità (il vero e il falso) e si ritrova al livello percettivo dell’opinione (il bello e il brutto, il buono e il cattivo…). Tale racconto, per il Rambam, è una grande metafora che tende a spiegare come l’uomo si sia trovato “fuori dal giardino”, cacciato dalla perfezione intellettuale, punito con una pena del contrappasso: “l’essere umano aveva avuto il permesso di mangiare leccornie… ma avendo peccato di gola e avendo seguito il suo piacere e le sue fantasie, venne privato di tutto e gli toccò il più vile dei cibi… a prezzo di duro lavoro e fatica” (ivi).
    Il maggior qabbalista italiano, Menachem da Recanati, attivo nella seconda metà del XIII secolo, recupera invece un’antica tradizione codificata (anche) nello Zohar, per cui quel primo peccato fu una trasgressione sessuale, l’adulterio tra la donna e il serpente, e l’albero della conoscenza alluderebbe al verbo biblico che indica il conoscere carnale. Adamo mangiò e peccò a sua volta, e per lui l’atto di mangiare equivale, secondo il qabbalista, a “tagliare la pianta”, a perdere la fede, dunque a un gesto idolatrico. Idolatria è farsi un’idea falsa di Dio, è piegare Dio alle nostre fantasie invece di riconoscere la sua immagine in noi. Anche rav Joseph Soloveitchik interpreta in tal senso il peccato dei protogenitori: “Quel che davvero la serpe voleva era distruggere la norma morale… e il peccato consiste nel credere che, per essere liberi, occorra scrollarsi di dosso ‘il giogo dei precetti’. Ecco l’inizio della tragedia cosmica dell’uomo”. Con termini che fanno eco al pensiero di Kierkegaard, rav Soloveitchik dice che si trattò di una regressione: dalla coscienza morale a un desiderio meramente estetico della vita. Pur lontani dal peccato originale elaborato da Agostino di Ippona, i maestri di Israele non hanno nel tempo tralasciato di indagare questo mito.

    Massimo Giuliani, Università di Trento

    (13 maggio 2021)

    da moked.it
     
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    La riparazione infinita è originale?
    GAVRIEL LEVI 11/11/1998

    Si sostiene spesso che nella tradizione ebraica non esista il concetto di peccato originale. Questa affermazione è in parte vera ed in parte falsa. Tutto dipende da che cosa si intende per peccato originale. Per chiarezza: quali diverse conseguenze si fanno derivare, con il concetto generale di peccato e con il concetto più specifico di peccato originale, sulle relazioni tra universo e D-o? Il concetto di peccato implica diversi collegamenti con i concetti di colpa, colpevolezza e senso di colpa.

    A) aver commesso un peccato può determinare una condizione oggettiva di trasgressione (colpa), una condizione esistenziale di vulnerabilità giuridica ed etica (colpevolezza) ed una condizione soggettiva di inadeguatezza e punibilità (senso di colpa);

    B) questi collegamenti tra il concetto di peccato ed i concetti di colpa, colpevolezza e senso di colpa vanno considerati in rapporto con i livelli di consapevolezza e intenzionalità che accompagnano le azioni ed i sentimenti di peccato.

    Peccato = espiazione

    Cerchiamo di dare una definizione più ampia del concetto di peccato, verificando se e come questo termine traduce esattamente il pensiero biblico-midrashico. Per iniziare, ricordiamo che nella toràh il termine linguistico che più si avvicina a quello di peccato-colpa è quello di chet/chattàt : chet/chattàt indica una sequenza che parte dalla tentazione di commettere un’azione deviante ed arriva sino alle azioni di riparazione-espiazione; chet/chattàt include un insieme di significati, che vanno dal rompere un patto, all’inciampare in un ostacolo ed al mancare la mira rispetto ad un obiettivo; chet/chattàt ha radici psicologiche molto profonde in quell’area antropologica che oggi chiamiamo Inconscio.

    E’ utile comprendere un’altra contraddizione linguistica. Dal termine chet/chattàt derivano due diverse coniugazioni verbali che possiedono significati antitetici. La coniugazione piana (radice:chattà) indica il commettere azioni di rottura/peccato; la coniugazione rafforzativa (radice:chittè) indica lo sviluppare azioni di riparazione/espiazione.

    Questa equivalenza della rottura con la riparazione ha un senso: produrre azioni di rottura/peccato corrisponde ad un livello di libertà istintuale, automatica e non pensabile dentro una relazione; produrre azioni di riparazione/espiazione corrisponde ad un livello di libertà affettiva, creativa e pensabile dentro una relazione umanizzata.

    Possiamo verificare queste idee analizzando molto brevemente, lo schema teorico dei sacrifici:

    a) i sacrifici espiatori di chattàt venivano portati per riparare trasgressioni inconsapevoli od ignote;

    b) i sacrifici espiatori di ashàm (radice etimologica di colpa) venivano portati per riparare azioni consapevoli che erano già diventate riparabili con una nuova successiva presa di coscienza;

    c) i sacrifici espiatori di ashàm talùi (colpa sospesa) venivano portati per riparare azioni per cui esisteva un dubbio se era stata commessa o meno una trasgressione;

    d) per azioni colpevoli che erano state commesse con piena intenzione e con formale rottura del patto, non esistevano sacrifici espiatori (il rapporto con D-o rimaneva sempre riparabile, ma la ritualità socializzata era sostituita da una relazione espiatoria diretta tra uomo e D-o).

    Se esiste un peccato, chi lo ripara?

    Il discorso sinora sviluppato è stato necessario per un fine ben preciso: consentirci di discutere l’ipotesi di un peccato-colpa originale all’interno di un concetto più ampio e generale di peccato-colpa. Rispetto alla tradizione midrashica-talmudica, ci sembra di potre sostenere che:

    a) il concetto di peccato originale come colpa assoluta, esclusiva del rapporto tra uomo e D-o e specialmente irreparabile da parte dell’uomo, non esiste nella tradizione ebraica; nell’universo ebraico è ugualmente inconcepibile l’idea di una colpevolezza-punibilità che si trasmette per via ereditaria; esiste invece l’ ipotesi per cui una generazione può rendere vulnerabili, ma sempre libere, quelle successive;

    b) per la teoria midrashica e qabbalistica della Creazione il concetto di chet-chattàt è fondamentale nella prospettiva di una relazione che si rigenera giorno per giorno; per il midrash, D-o crea un universo relazionale come fondamento dell’universo fisico; in questo universo di relazioni , una condizione basilare di manchevolezza della natura, dell’uomo e persino di D-o è il presupposto indispensabile di ogni patto libero;

    c) per comprendere il concetto di chet/chattàt è necessario assumere che la riparazione dell’universo può e deve essere realizzata soltanto dall’uomo; persino D-o dipende dalle azioni riparatrici dell’uomo per unificare nel nulla-infinito le Sue manchevolezze e le Sue responsabilità.

    Limitazione e coscienza dell’infinito

    La nostra analisi ci porta a rovesciare il concetto di peccato originale. Il problema dell’uomo non è il peso paralizzante di una colpa originale che, sin dall’inizio, diventa collettiva ed ereditaria La domanda esistenziale dell’uomo è la responsabilità di una riparazione infinita che, di generazione in generazione, coinvolge il rapporto tra il singolo uomo e la collettività umana.

    Riassumiamo il concetto di peccato originale considerando due posizioni :

    Posizione fatalistica. Per peccato originale si intende una colpa grave che essendo rivolta contro D-o diventa infinita. Secondo questa posizione, se si considera il testo biblico, la colpa infinita risulta essere, per definizione, il peccato di Adamo. Questa colpa altera definitivamente il rapporto tra uomo e D-o: l’uomo perde la possibilità di donare qualcosa di proprio a D-o e, diventando colpevole, nella sua stessa natura di uomo, non può dare un contributo autonomo alla salvezza. Davanti ad un uomo che diventa infinito soltanto nel peccato e nella colpevolezza, D-o deve annullare la libertà di una relazione paritetica ed è costretto ad assumersi la responsabilità esclusiva della Salvezza. Senza la Grazia soverchiante di D-o, tutti gli uomini assumono le conseguenze del peccato originale sin dal loro concepimento.

    Posizione libertaria. Per peccato originale si intende una condizione per cui gli esseri umani, e persino l’universo, per poter esistere in libertà, debbono necessariamente avere la potenzialità di agire contro la volontà ed il desiderio di D-o. Secondo questa posizione, la colpabilità dell’uomo sta nella lotta che ogni essere umano combatte per scegliere tra i suoi istinti ed il suo Creatore. Se si considera il testo della toràh, il modello paradigmatico della colpa sta nella ribellione del Vitello d’Oro: mentre D-o dona le Tavole del Patto che sono state accettate in piena libertà dagli ebrei, quest’ultimi debbono esercitare il diritto di rompere queste stesse Tavole del Patto per richiederle in un rapporto d’amore vincolante con D-o. Neppure D-o, può aiutare gli ebrei a muovere il primo passo di questo percorso. La percezione della presenza di D-o richiede la percezione che D-o si allontana dall’accampamento umano e che l’uomo-ebreo deve agire per farlo ritornare dentro di sé. Per conquistare, in pieno diritto l’amore di D-o l’uomo-ebreo deve combattere e vincere contro D-o.

    Le due definizioni, fatalistica e libertaria, di peccato originale sono ugualmente belle sul piano dell’esperienza estetica ma sono totalmente opposte sul piano dell’esperienza etica.

    La posizione fatalistica , già presente nel mondo greco, in quello medio-orientale antico e nella loro fusione ellenistica, presuppone che tutto il gioco dell’universo sia nelle mani della Divinità; Lui ha le carte, Lui fa le regole, Lui fa saltare il mazzo di carte quando, bontà o necessità Sue, vuol far vincere una parte del gioco anche agli esseri umani..

    La posizione libertaria , cioè quella biblica midrashica, presuppone che sin dal primo attimo della Creazione, l’Universo (ancor prima dell’uomo) ha la pienezza irrevocabile della libertà e la necessità di stabilire un patto con D-o. Miracolosamente, D-o stabilisce le regole, ma il gioco è alla pari, perché la parità dei ruoli è una scelta di D-o. Il problema di D-o è quello di imparare a perdere la partita senza perdere l’onnipotenza.

    Il buio sulla faccia dell’abisso

    Secondo la dizione dei Maestri, D-o crea il buio e forma la luce. Questo apparente paradosso deriva da un ragionamento garantista sulla validità del patto tra D-o e l’uomo. I quesiti sono molto semplici: a) se D-o è onnipotente può creare un universo che per quanto limitato possa competere con Lui? b) se D-o è onnipotente non deve forse imparare a darsi dei limiti, perché l’uomo impari a comprendere il significato dell’infinità di D-o? Seguendo il Midràsh, nella Creazione, D-o parla con gli oggetti che non esistono per farli esistere; il dialogo primordiale di D-o è la vera creazione, perché creare dal niente significa che anche nell’abisso del niente esiste una possibilità di ascolto e di risposta; gli oggetti nascono perché ricevono la possibilità di ascoltare la voce di D-o. La creazione del buio precede e condiziona la creazione della luce. Già nella tradizione biblica il buio non è una mancanza di luce, ma la sostanza da cui la luce è formata. Ed il peccato originale? E la colpa di Adam e Chavàh? E la colpa del Vitello d’oro?

    La tradizione midrashica precisa che le manchevolezze della Creazione precedono qualunque manchevolezza dell’uomo: 1) D-o deve avvolgersi in un Talléth perché la luce possa squarciare il buio; 2) l’universo cerca di espandersi all’infinito finché D-o lo obbliga a fermarsi, per consentire all’uomo la possibilità di una riparazione accettabile; 3) i cieli rimangono in una condizione di oscillazione perpetua, finché D-o non li obbliga a stabilizzarsi; 4) le acque inferiori rifiutano di separarsi dalle acque superiori, finché D-o non promette di dare anche a loro una possibilità di riunirsi all’infinito; 5) La luna rifiuta di illuminare il mondo con una corona pari a quella del sole finché D-o non la obbliga a rimpicciolirsi (per l’eternità?); 6) D-o chiede alla terra di generare alberi-frutto, in cui il tronco sia identico al frutto, mentre la terra produce tronchi che non sono frutti .

    Adam e Chavàh mangiano l’albero-frutto del bene-male dopo questi precedenti

    Se Adam e Chavàh avessero mangiato i frutti permessi prima di mangiare quello proibito avrebbero capito il senso liberatorio della mizvàh; se Adam e Chavàh avessero aspettato l’inizio del primo Shabbath per mangiare l’albero-frutto, non ci sarebbe stata nessuna manchevolezza nella loro azione; se il Giardino stava al centro dell’Eden e se l’Eden stava al centro del Giardino, in quale spazio cresceva l’albero-frutto? E se anche l’albero della vita stava nello stesso punto (dell’Eden e del Giardino) che differenza c’era tra l’albero della vita e quello dell’albero-frutto? E se il serpente stava fuori dell’uomo come poteva coincidere con l’istinto del male che sta dentro l’uomo? Le versioni midrashiche su questo argomento sono molte ma dicono tutte la stessa cosa: a) le manchevolezze dell’universo sono una caratteristica necessaria ed indispensabile della Creazione; b) il cosidetto peccato di Adam e Chavàh essendo stato commesso prima che la creazione fosse finita, con lo Shabbath, fa parte delle regole stabilite da D-o nella trattativa con il creato.

    Gli ebrei hanno commesso la trasgressione del Vitello d’Oro soltanto per insegnare a tutta l’umanità che la teshuvàh è sempre possibile. D-o si era scordato di mettere per iscritto questo principio già assodato e gli ebrei Lo hanno spinto a correggere questa mancanza rompendo e facendosi ridare le Tavole del Patto. Le seconde Tavole del Patto sono migliori delle prime, perché la pietra e la scrittura sono opera dell’uomo.

    Gli gli ebrei pensano che il Perdono Originale esiste da prima della Creazione. Come diceva Levi Izchàq di Berdichev: forse che D-o non ha niente da farsi perdonare?

    Novembre 1998 – Shalom

    da morasha.it
     
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