I testimoni nel processo e altro

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    LA RIFLESSIONE – Rav Somekh: Il processo la sera del Seder

    Pubblicato in Archivio il ‍‍15/04/2024 - 7 ניסן 5784

    «Il figlio sapiente (chakham) che cosa dice? ‘Cosa sono le testimonianze (‘edot), gli statuti (chuqqim) e le sentenze (mishpatim) che il nostro D. vi ha comandato?’». Con queste parole (cfr. Devarim 6, 20 e Nachmanide ad loc.) la Haggadah di Pessach inizia la presentazione dei “quattro figli”: quattro caratteri, quattro livelli differenti di attaccamento nei confronti di ciascuno dei quali il padre è chiamato a trovare un approccio adatto al tipo. Si comincia con il più preparato, il “sapiente” appunto: egli già conosce la storia dell’Esodo e vuole approfondire le halakhot, i doveri che derivano dalla memoria degli avvenimenti. Egli distingue le Mitzwot in tre tipologie. Di esse, due ci sono già note da altri passi della Torah: i chuqqim e i mishpatim. Da secoli identifichiamo nei chuqqim i precetti apparentemente privi di una motivazione comprensibile e nei mishpatim quelli che la mente umana si sarebbe data autonomamente anche se non fossero stati scritti nella Torah. Oltre mille anni fa R. Sa’adyah Gaon parlava di precetti «rivelazionali» (mitzwot shim’iyot) accanto a quelli cosiddetti razionali (mitzwot sikhliyot). Ma cosa sono le ‘edot, che nel nostro testo vengono addirittura introdotte per prime, a volerne sottolineare l’importanza?
    Immaginiamo che la tavola del Seder sia l’aula di un tribunale. Chi viene processato? Il Faraone, tutto il popolo egiziano per le sofferenze che ci hanno inflitto? Forse è meglio dire che assistiamo, almeno sul piano giuridico, alla disfatta del Male e dei suoi fautori. Quali sono i protagonisti di qualsiasi processo? Anzitutto il choq (singolare di chuqqim), ovvero la Legge. Rispetto all’attività dei giudici la legge è predeterminata: non può e non viene messa in discussione nel dibattimento. Choq deriva dalla radice ch.q.q., «scolpire nella pietra» senza poter modificare. La legge rappresenta il fondamento del giudizio stesso. Se il choq è il punto di partenza, il mishpat (singolare di mishpatim) rappresenta l’arrivo. Questa parola deriva dalla radice sh.f.t. che significa propriamente «giudicare». Etimologicamente mishpat allude alla “sentenza” dei giudici, con cui il processo si conclude. La sentenza rappresenta l’applicazione della Legge, di per sé immutabile, al caso in oggetto che, essendo legato alla realtà concreta, è mutevole.
    Come si giunge dalla legge (choq) alla sentenza (mishpat)? Presentando le ‘edot: le prove, ovvero le testimonianze. Senza di queste nessun processo può essere celebrato. Che caratteristiche devono avere? Anzitutto quelle dell’eloquenza. «Per bocca di due testimoni…» (Devarim 17, 10; 19, 15): essi devono saper parlare. Una testimonianza scritta non è accolta (Rashì ad loc.). Al Seder la parola è protagonista. Peh sach: “bocca che parla”! È però vero che i testimoni devono aver visto il crimine di cui riferiscono: non è sufficiente che ne abbiano sentito parlare da altri (‘ed mi-ppi ‘ed: Mishnah Sanhedrin 3, 6). Ecco che l’aspetto visivo è determinante rispetto a ciò di cui si parla. Quanti devono essere? Il versetto dice per esteso: «Per bocca di due testimoni o per bocca di tre testimoni ogni causa sarà convalidata». Solo se la testimonianza è riportata in modo coincidente da almeno due persone può essere accettata. Meglio ancora se da tre. «Se la testimonianza di due persone è già valida, perché il versetto spende ulteriori parole per ribadire che essa è valida anche se fornita da tre? Come due formano un’unica testimonianza e se uno viene squalificato essa è respinta, così anche tre formano un’unica testimonianza e se uno viene squalificato non bastano più gli altri due a convalidarla comunque» (Rashì e Siftè Chakhamim ad v.; Mishnah Makkot 1, 7). Ulteriore questione: fino a che punto le varie deposizioni devono coincidere? La Halakhah distingue fra le chaqirot (lett. “indagini” vere e proprie), domande sul tempo e il luogo del delitto che sono fondamentali e le bediqot (lett. “verifiche”) che possono riguardare dettagli marginali, non necessariamente vincolanti (Mishnah Sanhedrin 5, 1-2).
    Anche al Seder si richiede almeno a priori la presenza di tre testimoni. Tutti concordano sulla data, persino sull’ora e il luogo del fatto: mezzanotte del 14 nissan 2448 dalla Creazione, in Egitto. Sui dettagli, ognuno aggiunge qualcosa. In ordine crescente di importanza, il primo testimonia dell’esistenza delle sofferenze. È il Maror, l’erba amara. La sua evidenza ci dice che gli Egiziani «hanno amareggiato la vita dei nostri Padri con duro lavoro» (Shemot 1, 14). Il secondo testimone con la sua visibilità aggiunge qualcosa in più: attesta che la nostra sofferenza è stata tale da provocare in noi determinazione a lasciare l’Egitto anche a costo di rinunciare alle più comuni comodità. È la Matzah, il pane azzimo che i nostri Padri mangiarono senza attendere la lievitazione degli impasti pur di cogliere l’“attimo fuggente” della liberazione. Il terzo testimone è il più convincente e decide la sentenza finale. Davanti ai giudici esso dichiara che noi Ebrei eravamo pronti anche a sfidare il Male direttamente: abbiamo macellato gli agnelli oggetto del culto degli Egiziani davanti ai loro occhi e ne abbiamo cosparso il sangue sulle nostre porte, segno di abnegazione assoluta, fino all’effusione del nostro stesso sangue se fossimo stati costretti a combattere (cfr. Shemot Rabbà 16, 3). È il Pessach, il sacrificio pasquale. Quest’ultimo testimone, data l’estrema delicatezza del suo messaggio, non è presente in ogni epoca ma la sua assenza, ancorché sentita, non costituisce problema: abbiamo studiato che gli altri due testimoni sono sufficienti affinché il processo si concluda a nostro favore.
    Resta ancora da comprendere chi sia il figlio sapiente (ben chakham) che ha il compito di istruire questo processo. Sulle orme del Midrash non ci accontentiamo di immaginare una figura astratta. Vogliamo un exemplum vivente, tratto dai grandi personaggi del Tanakh cui poterci ispirare. Possiamo dargli un’identità? «Spiegano i nostri Maestri che per il merito della giustizia (mishpat) e dell’equità esercitate da David… è sorto suo figlio (benò, Shelomoh) dopo di lui, amico di H., che amava procedere secondo le leggi (chuqqot) di David suo padre. Domandò a H. un cuore che sapesse capire e ascoltare per poter giudicare (lishpot) il suo popolo, distinguere fra Bene e Male. Piacque a D. il fatto che avesse domandato questo e gli diede un cuore sapiente (chakham) e intelligente, come non era mai esistito prima e non sarebbe più sorto in seguito. Tutto Israel lo rispettò, poiché videro che la sapienza (chokhmah) di H. era in cuor suo nell’esercitare la giustizia (mishpat)…» (Tur, Choshen Mishpat, 1; cfr. 1Melakhim 3, 9 segg.).
    L’augurio è che “come ai tempi in cui uscisti dalla terra d’Egitto, gli mostrerò meraviglie (a Israel). I popoli vedranno e resteranno delusi da tutta la loro forza, si metteranno la mano sulla bocca e le loro orecchie assorderanno” (Mikhah 7, 15 segg.). Che il Bene trionfi sempre sul Male dove, come e quando. «L’anno prossimo a Yerushalaim» in pace.

    Rav Alberto Moshe Somekh

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