Giasone, gli Ebrei e Dante

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    Giasone

    Pubblicato in Attualità il ‍‍22/06/2022 - 23 סיון 5782



    Nel diciannovesimo Canto dell’Inferno Dante incontra i dannati per il peccato di simonia, ossia il commercio delle cose dello spirito, indebitamente sfruttate per trarre dei vantaggi personali. Un peccato, agli occhi di Dante, particolarmente odioso, in quanto comprendente tre distinte colpe, tutte molto gravi. Innanzitutto il simoniaco si arricchisce abusivamente, compiendo quindi una forma di furto o di sottrazione indebita; inoltre carpisce la buona fede del prossimo che, dal ruolo pubblico svolto dal peccatore, è indotto a credere che quello che egli fa sia fatto per il bene comune; infine, i beni di cui egli fa un uso improprio e fraudolento sono beni che dovrebbero appartenere al Signore, e solo a lui. Il simoniaco è quindi anche una sorta di traditore, e il suo tradimento è rivolto direttamente verso l’Altissimo, a cui aveva giurato fedeltà e obbedienza.
    Conoscendo l’importanza che per il poeta avevano i tre valori offesi (la giustizia, la buona fede, il timor di Dio), non stupisce il profondo disprezzo che manifesta nei confronti di questi peccatori, suppliziati in un modo atroce: sono ficcati infatti con la testa in giù dentro delle buche, dalle quali esce soltanto la parte finale delle gambe. Il loro volto è nascosto, sepolto in eterno sottoterra, come le radici degli alberi. Ma questi apparenti vegetali restano uomini, e soffrono terribilmente, anche perché, come se non bastasse il castigo già descritto, sulle piante dei loro piedi arde una fiamma che li brucia, pur non consumandoli. Per l’insopportabile dolore, i dannati torcono di continuo le loro giunture, sperando, invano, di riuscire in qualche modo a lenire le loro terribili sofferenze.
    Uno scenario da incubo, che è solennemente annunciato dalla violenta invettiva che apre il Canto, volta evidentemente a spiegare perché tali peccatori non meritino nessuna pietà: “O Simon mago, o miseri seguaci/ che le cose di Dio, che di bontate/ deon essere spose, e voi rapaci/ per oro e per argento avolterate,/ or convien che per voi suoni la tromba,/ però che ne la terza bolgia state” (1-6).
    Il Canto è particolarmente noto, fra l’altro, perché in esso, con una delle sue geniali invenzioni artistiche, Dante trova il modo di destinare in anticipo alle pene dell’Inferno il suo acerrimo nemico Bonifacio VIII. Il papa (morto nel 1303) era ancora vico al tempo del viaggio ultraterreno (avvenuto del 1300), e quindi il poeta non lo poteva incontrare nell’Inferno. Ma il suo posto è prenotato. Dante, infatti, si rivolge a una delle anime dannate, quella del pontefice Niccolò III. Questi, in ragione della sua posizione, naturalmente, non può scorgere le fattezze del suo interlocutore, e allora pensa che colui che gli si sta rivolgendo sia lo spirito del suo successore, ossia Bonifacio VIII, che avrebbe dovuto raggiungerlo, in quanto anch’egli simoniaco. Ma Niccolò si stupisce, perché, al momento del suo ingresso nell’Inferno, gli sarebbe stata annunciata (attraverso una sorta di “libro del futuro”) la data della morte di Bonifacio, che non era ancora arrivata: “se’ tu già costì ritto, Bonifazio?/ Di parecchi anni mi mentì lo scritto” (52-53). Su questa acerrima avversione di Dante verso papa Caetani avremo ancora qualcosa da dire, nell’ambito del nostro discorso.
    Quel che specificamente ci interessa, in queta sede, è la successiva invettiva profetica contro il papa Clemente V, che avrebbe governato la Chiesa dal 1305 al 1314: un “pastor senza legge” (83), anch’egli destinato a entrare nella terza bolgia, dopo Niccolò e dopo Bonifacio. Costui è indicato come un “nuovo Giasone”: “Nuovo Iasòn sarà, di cui si legge/ né Maccabei”. Il riferimento è al perfido Giasone, fratello del Sommo Sacerdote Onia – uomo invece di grande rettitudine -, che ne avrebbe preso il posto corrompendo il re siriaco Antioco IV Epifane, per poi promuovere, di concerto con questo, l’introduzione nel Tempio di costumi pagani ed ellenistici, corrompendo così la purezza della religione ebraica.
    Il riferimento appare significativo per due ragioni.
    Innanzitutto conferma la profonda conoscenza della Bibbia da parte del poeta, che egli frequentemente adopera come serbatoio per annotazioni e confronti, sempre molto esatti e pertinenti. E conferma, inoltre, il suo grande rispetto per la storia d’Israele, verso la quale si confronta sempre con un atteggiamento perfettamente conforme alla scala valoriale indicata dalla tradizione ebraica: come Giuda Maccabeo – come abbiamo ricordato – è collocato nel Paradiso, così il nome di Giasone (il cui spirito non è indicato nella bolgia, ma si presume che stia lì) è usato come emblema di simonia. I ‘buoni’ e i ‘cattivi’ della storia di Israele conservano, nella Commedia, l’identica reputazione. Esattamente il contrario di quanto farebbe un antisemita, che condannerebbe o schernirebbe Giuda (difensore dell’identità ebraica) e apprezzerebbe invece Giasone (suo corruttore).
    Riguardo alla generale posizione di Dante nei confronti dell’ebraismo, tuttavia, il XIX Canto assume, secondo me, un’importanza essenziale soprattutto per un altro motivo, che esporrò nella prossima puntata.

    Francesco Lucrezi

    (22 giugno 2022)

    La meta

    Pubblicato in Opinioni a confronto il ‍‍12/12/2022 - 18 כסלו 5783



    Abbiamo trattato, nella scorsa puntata, del modo in cui la figura di Mosè è richiamata nella Commedia, dove è evocata quattro volte (alle quali si dovrebbe però anche aggiungere la citazione implicita, di cui abbiamo già parlato, contenuta in Purg. XVIII. 134, ove si parla degli ebrei come “la gente a cui il mar s’aperse”: e fu Mosè a fare aprire quel mare), in tutte e tre le cantiche. E ci siamo quindi chiesti in che misura il viaggio di Dante abbia avuto come modello d’ispirazione quello del profeta, così come gli altri tre viaggi più famosi tramandati dalla tradizione dell’Occidente, ossia quelli di Abramo, Ulisse ed Enea.
    Credo che tracciare un parallelo tra questi cinque viaggi (Abramo, Mosè, Ulisse, Enea, Dante) possa aiutare non solo a cogliere il senso del messaggio dantesco, ma anche – che è la cosa che direttamente ci interessa – del legame di esso nei confronti dell’ebraismo.
    Si può dire che ogni narrazione (nel mondo antico, ma anche, in buona parte, in quello moderno e contemporaneo) abbia sempre rappresentato il racconto di un viaggio, di uno spostamento. Se un soggetto sta fermo e non si muove, in genere non c’è niente da raccontare. I libri di storia, per lo più, non sono altro che una sequenza di racconti di movimenti, migrazioni, navigazioni, spostamenti di uomini, famiglie, popoli, eserciti. Se li svuotassimo di tutte queste narrazioni (dei movimenti di Alessandro, Annibale, Scipione, Cesare, Traiano, Colombo, Napoleone, Garibaldi, delle armate di Hitler, Stalin, Roosevelt, Churchill ecc.), resterebbe ben poco. E lo stesso vale per i testi di mitologia (Agamennone, Didone, Giasone, Teseo…), così per molti romanzi di fantasia (Verne, Salgari, Melville, Collodi…). Basta guardare le carte geografiche di oggi, d’altronde, per renderci conto che almeno la metà dei Paesi in esse rappresentati sono frutto di gigantesche migrazioni, senza le quali il mondo attuale non esisterebbe.
    La storia dell’umanità è iniziata con l’uscita di Adamo ed Eva da Gan Eden, quindi con una migrazione. Tutto si muove, senza il movimento non c’è storia e non c’è vita. La forza e la vitalità delle culture, delle lingue, delle religioni si misura dalla loro capacità di viaggiare, di approdare su nuove sponde.
    Credo che, nel secolo scorso, l’idea del viaggio, del movimento degli uomini e delle idee abbia conosciuto due novità – almeno apparenti – rispetto alle epoche passate.
    La prima è che il viaggio non deve essere necessariamente uno spostamento fisico, in quanto si può anche viaggiare mentalmente, restando fisicamente fermi. Si tratta di una grande scoperta, in particolare, di Freud, a lui ispirata, tra l’altro, dalla tragedia greca. I viaggi nell’inconscio sono lunghi, difficili e perigliosi, ma non implicano un movimento fisico. Ma forse, come vedremo, non si tratta di una novità assoluta.
    L’altra novità è il fatto che il tormentato “secolo breve” ha tolto l’illusione che il viaggio debba avere necessariamente una meta, un obiettivo preciso. I viaggi di Abramo, Mosè, Ulisse, Enea, Dante, diversissimi tra loro, hanno tuttavia in comune il fatto di avere un approdo, una destinazione, anche se non necessariamente un lieto fine. Il viaggio di Ulisse – di cui abbiamo già parlato -, in Omero e in Dante, ha due finali opposti, ma comunque un esito chiaro. Lo stesso non si può dire per la poesia di Leopardi, Saba, Celan, Montale, così come per la scrittura di Kafka, Joyce, Morante, Philip Roth. La letteratura contemporanea è fatta in gran parte di racconti di smarrimenti, di viaggi senza arrivo. Teseo, spesso, si perde nel labirinto, non trova il minotauro, non salva nessuno.
    Ma, come ho già osservato in una delle scorse puntate, sarebbe molto riduttivo vedere nella Commedia una parola “fine”, e tanto meno un “happy end”. Così come, nella Meghillà di Ester, è scritto che “non c’è un prima e un dopo nella Torah”, anche la Commedia ha un’evidente dimensione atemporale. Anche se il viandante torna “a riveder le stelle”, ciò che ha visto non è passato, e continuerà a inseguirlo. Come hanno detto, in vario modo (qualcuno, non con la parola, ma col gesto, ancora più eloquente, del suicidio), molti dei sopravvissuti ad Auschwitz, dai campi non si esce mai definitivamente. E la stessa cosa può dirsi da chi ritenga o pretenda (con temeraria audacia) di avere visitato l’Inferno.
    Cosa ha in comune, il viaggio della Commedia – dal punto di vista del poeta -, e cosa di diverso rispetto agli altri quattro viaggi? Cosa hanno in comune e cosa di diverso le mete, le destinazioni degli stessi?
    Si tratta di una domanda che investe il rapporto di Dante con l’essenza di tutta la cultura classica e, soprattutto, di quella civiltà ebraica che, da Abramo in poi, è sempre stata lo spazio del tragitto, dell’attraversamento.
    Cercheremo di rispondere nelle prossime puntate.

    Francesco Lucrezi

    Periscopio – L’occasione mancata

    Pubblicato in Idee il ‍‍29/06/2022 - 30 סיון 5782



    Nella scorsa puntata di questa rassegna su Dante e gli ebrei abbiamo trattato del XIX Canto dell’Inferno, dedicato alla punizione dei simoniaci, dove è evocata la figura di Giasone, che usurpò il ruolo di Sommo Sacerdote per corrompere la purezza della religione ebraica, asservendo il Tempio a culti e interessi stranieri. Questo Canto, a mio avviso, è di grande importanza ai fini di un apprezzamento dell’attualità del pensiero di Dante, specificamente ai fini del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo.
    Come abbiamo avuto modo più volte di constatare, il poeta, pur riflettendo passivamente alcuni stereotipi antisemiti che facevano parte da secoli delle credenze teologiche dominanti – in primis, quello della distruzione di Gerusalemme come punizione collettiva per il cd. ‘deicidio’ -, non mostra mai alcuna animosità personale verso il popolo e la religione ebraici, ai quali riserva invece sempre costante ammirazione. Come abbiamo detto, è da presumere che, secondo la sua visione, non solo gli ebrei vissuti prima dell’era volgare – che lo abbiano meritato – siano saliti in Paradiso, ma anche quelli venuti dopo. E ciò rappresenta senz’altro qualcosa di assolutamente nuovo e originale nella teologia cattolica del suo tempo (e, in una certa misura, anche di oggi).
    Ma, al di là di questo, Dante è ‘oggettivamente’ filoebraico per un altro, fondamentale motivo, ossia per il fatto che la sua concezione della Chiesa e del cristianesimo – decisamente in controtendenza rispetto a quelle prevalenti – era quella che meglio avrebbe permesso al popolo ebraico di vivere in pace e armonia nelle società cristiane. Se il pensiero di Dante avesse prevalso, non sarebbero accadute le tante violenze, vessazioni e crudeltà accadute nei secoli successivi. Ma così non è stato, ed è successo quello che è successo. La Chiesa, e l’intero Occidente, rifiutando Dante, hanno perso una grande occasione. Anzi, per la precisione, due.
    La prima “occasione mancata” possiamo indicarla nel rifiuto del concetto di ‘laicità’. Tale valore, com’è noto, è di origine moderna, e ancora oggi viene interpretato in molti modi diversi. La parola non compare mai nella nostra Costituzione repubblicana, ma è assurta a “principio supremo” della stessa, non suscettibile di revisione costituzionale, ad opera della famosa sentenza costituzionale 12/4/1989, n. 203, detta “sentenza Casavola” dal nome del suo relatore, il grande giurista, mio amatissimo Maestro, Francesco Paolo Casavola. Questa sentenza spiega, in modo decisamente innovativo, che la laicità non è indifferenza dello Stato di fronte alla religione, ma suo intervento attivo affinché ciascuno possa praticare il proprio credo, o professare la propria non credenza, in assoluta libertà e al riparo da qualsiasi imposizione o prevaricazione. Se anche in uno Stato tutti, tranne uno, praticassero la stessa fede, quell’unico dissenziente dovrebbe essere protetto nel suo diritto di restare se stesso. E, affinché ciò sia possibile, è ovvio che lo Stato, di per sé, non deve, non può fare nessuna opzione di tipo religioso.
    Gli ebrei, per quasi due millenni, hanno sempre vissuto come piccole minoranze tra larghe maggioranze di persone che seguivano un’altra fede (in genere, cristiana o islamica), e non c’è bisogno di ricordare che essi hanno sempre vissuto meglio o peggio a seconda di quanto il Paese che li ospitava imponeva un dato credo – o, quanto meno, discriminava in base allo stesso – o, invece, faceva propri, almeno in qualche misura, alcuni elementi, sia pure non dichiarati, di laicità. Negli stati confessionali – a partire, ovviamente, da quello pontificio – gli ebrei sono sempre stati, nel migliore dei casi, dei cittadini di serie B, e non avrebbe potuto essere altrimenti.
    Ciò era un destino ineluttabile? Secondo Dante, no, come espresso nel celebre grido di dolore relativo alla nascita del potere temporale della Chiesa, considerato, dal poeta, sorgente di infinite sciagure: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre!” (Inf. XIX. 115-117). Il riferimento è alla leggenda della donazione di Costantino, che avrebbe regalato al papa la terra per edificare un proprio regno terreno. La conversione di Costantino, secondo il poeta, fu una cosa buona, ma quel regalo generò solo disgrazia, e non solo perché rese il padre della Chiesa ‘ricco’, ma soprattutto perché inquinò la purezza delle questioni di fede con la bassezza degli interessi terreni.
    Questi versi, secondo me, rappresentano una pietra miliare del concetto di laicità, nel profondo Medio Evo, molti secoli prima delle Rivoluzioni Americana e Francese e delle moderne Costituzioni democratiche. E non è un caso, credo, che il Professore Casavola, padre della ricordata sentenza, sia, tra l’altro, un profondo conoscitore e amante di Dante.
    Ma quel monito, quel grido di dolore, è rimasto inascoltato. La prima delle due “occasioni mancate”.
    Della seconda parlerò nella prossima puntata.

    Francesco Lucrezi

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