Levinas su Cristianesimo, Fede, Eucarestia e Isaia 58

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    PENSIERO
    Emmanuel Lévinas si esprime sul cristianesimo*
    REDAZIONE 01/01/1988


    La confessione vibrante del grande filosofo: durante il nazismo la Chiesa aiutò noi ebrei. La testimonianza di un soccorso negli anni bui “È vero che i colpevoli della Shoah erano battezzati, ma allora ovunque appariva una tonaca nera c’era rifugio. Io stesso devo la vita della mia famiglia a un monastero”

    Vorrei, in modo semplice, raccontare come, nel corso degli anni, la mia personale attitudine riguardo al cristianesimo ha subito un certo cambiamento, precisamente grazie alla lettura di Franz Rosenzweig.(1) Ho avvicinato il tema per la prima volta, come per caso, nell’angolo di un salotto, con un amico, il poeta Claude Vigeé. Ai suoi occhi ci fu una sorta di confessione di fede. Una professione di fede che impegna soltanto chi vi sta parlando. Noi Ebrei conserviamo ognuno la propria libertà di espressione; non abbiamo, nonostante la stabilità della Legge, orientamenti che sarebbero dettati dalla Sinagoga. Né obbligatori e nemmeno ufficiali. Ognuno è, perciò, in un certo senso, libero di dichiarare i suoi “eventi interiori”.

    È con questo spirito che vorrei raccontare qui quanto dissi per la prima volta a un amico. Nella mia infanzia – tre quarti di secolo fa – il cristianesimo mi parlava come un mondo completamente chiuso da cui, come ebreo, non potevo aspettarmi niente di buono. Le prime pagine di storia del cristianesimo che ho potuto leggere raccontavano l’Inquisizione.

    Avevo già otto o nove anni quando appresi la sofferenza dei marrani in Spagna. Un poco più tardi ci fu la decisiva lettura della storia delle Crociate. Da bambino vivevo in un paese in cui non c’era alcun contatto sociale tra ebrei e cristiani. Sono nato in Lituania, un bel paese con belle foreste e brave persone molto cattoliche, ma dove non ci si frequentava tra ebrei e cristiani se non per motivi puramente economici.

    Più tardi lessi il Vangelo. Penso che quella lettura, che non mi contrariava più, sottolinei un’antitesi. La rappresentazione e la dottrina dell’uomo che vi trovavo mi sembravano sempre vicine.
    Sono capitato sul capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo in cui un gruppo di persone rimane sorpreso nell’ascoltare che hanno abbandonato o perseguitato il buon Dio ed in cui viene detto loro che quando mandavano via i poveri che bussavano alle loro porte era in realtà il buon Dio in persona che stavano mettendo alla porta.

    Più tardi, dopo aver appreso i concetti teologici di transustanziazione e di eucarestia, mi dicevo che la vera eucarestia era nell’incontro con altri piuttosto che nel pane e nel vino, e che è in questo incontro che risiedeva la presenza personale di Dio; e tutto questo l’avevo già letto nell’Antico Testamento, al capitolo 58 di Isaia. Il senso era lo stesso: uomini già “spiritualmente raffinati” che vogliono vedere il volto di Dio e godere della sua prossimità vedranno il suo volto solo quando avranno affrancato i loro schiavi e nutrito quanti hanno fame. Questa l’antitesi. E, mi permetto di dire, questa fu anche la comprensione della figura di Cristo. Quanto rimaneva incomprensibile non era tale figura, ma la teologia realista che la circondava. L’intero dramma del suo mistero teologico rimaneva inintelligibile.

    Ed è ancora così, nonostante concetti come la Kenosi di Dio, l’umiltà della sua presenza sulla terra, siano così vicini alla sensibilità giudaica con tutto il vigore del loro senso spirituale. Ma non è tutto. La cosa peggiore era che tutti quegli atti spaventosi dell’Inquisizione e delle Crociate erano legati al segno di Cristo: la Croce. Tutto ciò sembrava incomprensibile e richiedeva una spiegazione.

    Qui l’essenziale: cristiana, l’Europa non poteva fare nulla per raddrizzare le cose. È la prima cosa che devo dire. E rimane sempre molto viva in me; la lettura del Vangelo è sempre stata compromessa, ai miei occhi – ai nostri occhi – dalla Storia. Giunge allora ciò che voi chiamate Olocausto e noi Shoah. Qui esplosero due evidenze. Innanzitutto il fatto che tutti coloro che parteciparono alla Shoah avevano ricevuto nella loro infanzia il battesimo cattolico o protestante: non vi trovarono alcun divieto! Seconda cosa, molto importante: è in questo tempo che mi si mostrò chiaramente ciò che voi chiamate carità e misericordia.

    Ovunque appariva una tonaca nera c’era rifugio. Il discorso, in alcuni luoghi, era ancora possibile. Un mondo senza ricorsi è un mondo disperato. Vi racconto una storia. Durante la guerra ero stato mobilitato in un servizio della capitale. Un compagno, nell’ufficio, aveva perso un figlio. Il padre era ebreo ma la madre cristiana; il servizio funebre si svolse nella chiesa di Sant’Agostino. Era prima del 10 maggio 1940, ma il nostro antico mondo era già in crisi. Durante la cerimonia funebre ero vicino a un’immagine, tela o affresco, che rappresentava una scena da 1 Samuele: Anna conduce al Tempio suo figlio Samuele. Questo era ancora il mio mondo.

    Soprattutto Anna, straordinaria figura di donna ebrea. Ho pensato alla sua silenziosa preghiera: “Le sue labbra si muovevano ma la sua voce non si sentiva”; ho pensato al malinteso con il sacerdote Eli e a come lei risponde: “No, mio signore, sono una donna affranta; non ho bevuto né vino né alcuna bevanda inebriante: stavo solo sfogandomi davanti a Dio”. Questa donna pronunciava la vera preghiera del cuore: lo svuotarsi di un’anima. Relazione autentica, concretezza dell’anima, personificazione della relazione.
    Ecco ciò che ho visto nella Chiesa. Che prossimità! Tale prossimità resta in me. Penso anche di essere debitore verso tale carità.

    Devo la vita della mia piccola famiglia a un monastero in cui mia moglie e mia figlia furono salvate. Sua madre era stata deportata, ma mia moglie e mia figlia trovarono rifugio e protezione presso le suore di San Vincenzo de’ Paoli. Quanto devo loro oltrepassa la gratitudine e la riconoscenza va molto più lontano. La cosa più importante, in quel periodo, era la possibilità di parlare con qualcuno. Ma tutto ciò è, in fin dei conti, sentimentalismo.

    Già prima della guerra leggendo Rosenzweig ho conosciuto la sua tesi sulla possibilità filosofica di pensare la verità come apertura verso due forme: l’ebraica e la cristiana. Posizione straordinaria: il pensiero non procede verso il suo compimento attraverso una sola via. La verità metafisica sarebbe possibile essenzialmente attraverso due espressioni. Non sempre sono d’accordo con tutte le articolazioni del sistema Rosenzweig. Non credo che le articolazioni, così come le sviluppa, siano valide definitivamente.

    Ma la stessa possibilità di pensare senza compromessi né tradimenti sotto le due dorme, l’ebraica e la cristiana, quella della misericordia cristiana e quella della Torah ebraica, mi ha consentito di comprendere la relazione tra ebraismo e cristianesimo nella sua positività. Posso dirlo in altri termini: nella sua possibilità di dialogo e di simbiosi. Ho accolto molto positivamente la dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate.

    Ho capito il cristianesimo nel suo “vivere e morire per tutti gli uomini”. I cristiani attribuiscono molta importanza a quanto chiamano fede, mistero, sacramento. A tale riguardo, vi racconto una piccola storia: Hannah Arendt, qualche tempo prima della sua morte, raccontava alla radio francese che quando era bambina, nella sua città natale Königsberg, un giorno disse al rabbino che le insegnava religione: “Ho perduto la fede”. E il rabbino le rispose: “Chi ve la chiede?”.

    La risposta è caratteristica. Ciò che importa non è la fede ma il “fare”. Fare significa senz’altro il comportamento morale, ma anche il rito. Del resto credere e fare sono differenti? Che significa credere? Di cosa è fatta la fede? Di parole? Di idee? Di convinzioni? Con cosa crediamo? Con tutto il corpo! Con tutte le mie ossa (Salmo 35,10)! Il rabbino voleva dire: “Fare bene è credere”. Questa è la mia conclusione.

    * Roma, 12 settembre 2000 (CIP)

    ___________________
    (1) Filosofo ebreo tedesco, Franz Rosenzweig (1886-1929) ha pubblicato la sua opera maggiore nel 1921 : « La stella della Redenzione ». Egli vi mostra il perché, quando la cultura imperante lo spingeva ad aderire al cristianesimo, ha scelto di vivere come ebreo più che mai. Il titolo dell’opera allude alla nota stella di Davide. Rosenzweig ne prende lo spunto per situare le grandi domande della vita in relazione a Dio, l’uomo e il mondo. « La verità divina sisottrae a colui che non vorrebbeche afferrarla con una mano », egli scrive in « La Stella della Redenzione ».

    Articolo originale : Emmanuel LÉVINAS, « Judaisme et christianisme », in Zeitgewinn, Joseph Knecht Verlag, 1987. Ripreso in E. LÉVINAS, À l’Heure des Nations, Paris, Ed.de Minuit, 1988.

    www.nostreradici.it/Levinas_Cristianesimo.htm
     
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