Chi ha cambiato nome a Gerusalemme?

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    Gerusalemme nella Halakhà e nel Midràsh
    RAV SCIALOM BAHBOUT 11/06/1995
    In occasione delle nozze di Riccardo Pacifici e Alessandra Spizzichino – 11.6.1995

    Qual è l’origine del nome Yerushalàyim? Il nome compare nella Torà ai tempi di Abramo nella forma contratta “Shalem”. Al ritorno dalla guerra che Abramo fa per liberare Lot, preso prigioniero da Amrafel e dai suoi alleati, Malkitzedek, re di Shalem, gli va incontro offrendogli pane e vino. Onkelos nella sua traduzione aramaica traduce Shalem con Yerushalem (senza yod come troviamo in tutta la Bibbia). Chi ha dunque cambiato il nome di Shalèm trasformandolo in Yerushalem?

    Nella ’akedà (il “sacrificio” di Isacco) troviamo scritto (Genesi 22, 14) “Abramo chiamò quel posto: il Signore provvederà–yirè”. La Torà afferma che Abramo andò per sacrificare il figlio sul monte di Morià, dove più tardi verrà costruito il Tempio (II Cronache, cap. 3). I Maestri affermano che il nuovo nome alla città sarebbe stato dato da Dio stesso, che ha voluto così tenere conto sia dei due nomi Shalèm che le aveva dato Sem – che il midràsh sostiene essere stato lo stesso Malkitzedek – e Yirè che le aveva dato Abramo.

    Dal punto di vista della Halakhà, cosa caratterizza Yerushalàyim rispetto a tutta Eretz Israèl? La terra d’Israele era stata divisa tra le dodici tribù: solo Yerushalàyim rimase fuori da questa divisione, perché era considerata proprietà di tutto Israele. Da questo status di Yerushalàyim derivano alcune regole importanti: non si possono dare in affitto le case, perché sono di proprietà di tutti e quindi i pellegrini che arrivavano a Gerusalemme per le feste alloggiavano gratuitamente presso le famiglie di Gerusalemme. Quale “compenso” per l’ospitalità ricevuta, i pellegrini davano agli abitanti le pelli degli animali sacrificati.

    Per lo stesso motivo, a differenza di quanto accadeva nelle altre città cinte di mura che, una volta vendute, dovevano essere riscattate entro un anno, a Gerusalemme la vendita di una casa non era definitiva.

    Altre norme particolari non venivano applicate a Gerusalemme: eglà ’arufà, la giovenca che veniva accoppata quando un morto di cui non si conosceva l’autore veniva trovato nelle vicinanze di una città, e la ’ir haniddàchat, la città che veniva distrutta, se aveva fatto atto pubblico di idolatria.

    Un altro elemento che caratterizzava Gerusalemme era la pulizia dell’ambiente: era proibito ammucchiare l’immondizia, farvi delle fornaci per la calce per via del fumo che producevano e piantare frutteti che avessero bisogno di concime maleodorante. I mercati di Gerusalemme venivano puliti giornalmente, cosa assai rara in quei tempi. Quindi, pulizia e aria pura a Gerusalemme.

    La kedushà–santità di Gerusalemme non è legata al tempo e per questo durante la preghiera, anche dopo la distruzione del Tempio ci deve rivolgere verso il Santuario. Inoltre se si escludono le tombe del re David e della profetessa Chuldà, non vi erano cimiteri all’interno delle mura di Gerusalemme.

    Il lutto per Gerusalemme si deve manifestare in ogni luogo e in ogni occasione. Nella propria casa si deve lasciare qualcosa di incompiuto: anche la donna deve lasciare qualcosa di incompiuto tra i monili che porta. Per tenere vivo il ricordo di Gerusalemme, si facevano dei monili d’oro per le donne sui quali veniva incisa la forma della città. A questo tipo di monile si dava il nome Yerushalaim shel zahav.

    La Grande Assemblea stabilì una benedizione per Gerusalemme nella preghiera della ’Amidà (le 18 benedizioni), nella Birkàt Hamazòn, nella Haftarà e nelle Shevà’ Berakhòt per gli sposi.

    I Maestri affermano che “Gerusalemme ha ricevuto tre corone: la corona della bellezza, la corona della Torà e la corona della sapienza” e che “Dieci misure di bellezza, di Torà e di sapienza sono scese nel mondo e Gerusalemme ne ha ricevute nove”.

    I Maestri amano mettere a confronto la sapienza di Gerusalemme con quella di Atene, le cui culture hanno sempre considerato in aperto contrasto tra loro. Il seguente racconto è indice anche dell’ironia con cui i Maestri guardavano a questo confronto:

    Un ateniese, recatosi in visita a Gerusalemme, incontra un bambino. Gli dà qualche soldo e gli dice: va’ a cercarmi qualcosa che io possa mangiare, possa saziarmi e poi lasciarne quanto basta per il viaggio. Il bambino va e gli porta del sale. L’ateniese: “Ti ho forse detto di portarmi del sale?” E il bambino: “Non mi hai forse detto di portarti da mangiare, tanto che potesse saziarti e che ne avanzasse anche per il viaggio? Ti giuro che c’è quanto basta per tutto ciò che mi hai chiesto”.

    Quando devono spiegare perché Gerusalemme è stata distrutta, i Maestri non esitano a trovare la ragione nel fatto che erano state le controversie interne ad aver causato il progressivo indebolimento morale della città: in particolare i Maestri sottolineano il fatto che gli ebrei applicavano la legge con troppo rigore, invece di fare uso della pesharà, cioè di quelle soluzioni che potessero mediare tra le varie posizioni.

    Ma Yerushalàyim è sempre stata anche il simbolo della speranza della ricostruzione e della rinascita di Israele: “Il giorno in cui fu distrutto il Santuario nacque il redentore”: questo motivo di speranza trova una sua immediata applicazione nella norma che stabilisce che non si dice techinnà–preghiera di supplica e viddui–confessione nel giorno di Tishà’ Beàv, e questo proprio perché Israele spera che Gerusalemme potrebbe essere ricostruita da un momento all’altro.

    Si racconta di un Rebbe che, ogni anno, alla fine di Tishà’ Beàv usava riporre nella ghenizà il libro delle Kinnòt (le elegie in cui Israele si lamenta per la distruzione di Gerusalemme). Ai suoi chassidìm che gli chiedevano il perché di questo suo strano comportamento, il Rebbe impassibile rispondeva: “L’anno prossimo Gerusalemme sarà ricostruita e non ne avremo più bisogno delle Kinnòt”.

    Scialom Babbout

    da morasha.it
     
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